Pellegrinaggio al sacro monte di Varese: giugno
Don Giancarlo. Un saluto a tutti i presenti. Come nel passato, anche quest’anno, viviamo il gesto del pellegrinaggio come espressione di ringraziamento a Cristo che ha illuminato il nostro cammino attraverso tanti segni di benevolenza. Ciascuno può riconoscere quelli più consoni alla sua storia.
Vi invito riconoscerne uno, comune a tutti: il legame di comunione con chi è qui al nostro fianco. Chi ha la grazia di vivere l’esperienza ecclesiale diventa per l’altro segno della presenza di Cristo..
Domandiamo alla Madonna il dono della sapienza, del coraggio della verità e della pietas affinché ciascuno di noi possa diventare generatore di rapporti e di risorse che mirino al bene della persona, della famiglia e dei popoli.
Oggi ha accettato di venire in mezzo a noi un prete novello, don Andrea Plumari, che ci farà una testimonianza.
Iniziamo il pellegrinaggio facendo nostra la preghiera scritta dallo scrittore milanese Pontiggia.: “ Forse preghiera e guarigione convergono. La preghiera è guarigione non dal male ma dalla disperazione. Nel momento in cui uno è solo, la preghiera spezza la solitudine del morente. Ancor oggi mi metto in contatto con una voce che risponde. Non so quale sia ma è più durevole e fonda di chi la nega. Tante volte nella vita l’ho negata anch’io per riscoprirla nei momenti più difficili. Non era una eco. ”
Facciamo il pellegrinaggio per implorare il Verbo che si è fatto carne. Maria, nella storia, è la figura che più si è assimilata a Gesù. Per questo in tutta la tradizione millenaria del cristianesimo Maria è la creatura più affettuosamente invocata e più familiarmente vicina; madre e figlia come la definisce Dante nell’inno alla Vergine della 33° cantica del Paradiso. “Vergine Madre, figlia del tuo figlio”. In quanto madre e figlia è stata capace di accogliere e far sue tutte le voci, i sussurri, le urla e le implorazioni degli uomini a lei affidatisi.
Recita dell’ Angelus e canto di “Ave Maria, splendore del mattino….
X° Cappella: testimonianza di don Andrea.
Ciao a tutti. Sono Don Andrea. Mi sono fatto provocare dall’ultima lettera di Giussani alla Fraternità. Senz’altro la conoscete. Ho tentato di paragonarla alla mia storia. Ne riprendo due punti.
Il primo è quello in cui Don Giussani riprende il canto del Benedictus e parla del popolo e della sua salvezza, temi a lui molto cari. Memore di questo, ho riguardato la mia storia e mi sono reso conto di quanto la mia vocazione sia maturata dentro un popolo. Ricordo tutti i sì decisivi detti nella mia vita e diventati possibili perché, prima di me, altri avevano già detto il loro sì.
Da ragazzo frequentavo l’Oratorio. A scuola non riuscivo bene tanto che, frequentando l’indirizzo per geometri, sono stato bocciato due volte nei primi anni. Allora mio padre che aveva un’impresa edile mi ha dato l’opportunità di lavorare all’interno dell’azienda come magutt (manovale). Nel contempo frequentavo la scuola serale a Legnano.
Così per quattro anni. Di giorno lavoravo e, di sera, a scuola.
Nel contempo ho lasciato perdere i rapporti con i miei amici dell’Oratorio. L’incontro col nuovo parroco Don Paolo mi è servito come spinta per rifrequentare la comunità giovanile che nel frattempo si era creata.Lì ho anche ritrovato alcuni dei miei vecchi amici.
Il parroco chiamava spesso persone adulte a testimoniare la loro vita. Mi colpiva sempre la serenità che mi trasmettevano. Intanto io coltivavo il progetto di cercarmi una ragazza e vivere la mia vita. Però incominciavo a rendermi conto che la questione non era il mio progetto ma quello che intravedevo in alcune persone che avevano deciso di seguire il Signore. Loro erano felici ed io volevo esserlo come loro. Allora mi sono reso conto che dovevo cambiare qualcosa nella mia vita. Se mi appassionavo al Signore il resto sarebbe venuto di conseguenza. Così ho incominciato a pregare Maria. Nelle mie preghiere non avevo il coraggio di domandare di trovare presto una ragazza adatta a me; però non avevo nemmeno il coraggio di chiederle di aiutarmi a farmi prete. Quando ci pensavo mi veniva paura.
Obbedendo al parroco che mi aveva fatto incontrare dei seminaristi avevo notato la loro felicità. Chiedevo a Maria di essere anch’io felice come loro. Glielo domandavo sempre ma soprattutto nei pellegrinaggi ai luoghi mariani. A Cestokowa ed al Sacro Monte.
Nel frattempo ho fatto il servizio civile.Chiedevo frequentemente al Signore che tale esperienza diventasse decisiva per la mia vita. Fui inviato in un centro di accoglienza per ragazzi dai 12 ai 18 anni. Ragazzi abbandonati, maltrattati, violentati anche dai genitori o senza genitori: albanesi, zingari, psicopatici. C’era di tutto. Al primo momento pensavo: “che bello così potrò aiutare qualcuno!” In realtà, dopo qualche settimana , vedendo spesso gli operatori della comunità ridotti al ruolo di funzionari burocratici che eseguivano solo regole e, in qualche caso, anche incattiviti od abbrutiti dall’ambiente, ho capito una cosa decisiva per la mia vita: “Non è l’uomo che salva l’uomo”.
Ho parlato poi con il responsabile del seminario di Venegono che mi ha invitato a verificare bene quello che era importante per la mia vita. Avendo intuito la mia strada ho dovuto comunicarlo ai miei genitori. Loro avevano altri progetti su di me. Mi ero appena diplomato, frequentavo ancora il servizio civile e mi aspettava un lavoro nella ditta di mio padre. Il rettore mi aveva consigliato di entrare subito in Seminario e di non aspettare settembre. Secondo lui ero pronto per questa avventura. Ma i miei genitori non erano della stessa idea. Speravano che fosse una cotta del momento e che, in seguito, mi sarebbe passato. In un successivo confronto con il rettore questi mi disse: Guarda, Andrea, che se non sei nemmeno riuscito a convincere i tuoi genitori significa che non ci tieni veramente. Questa per me è stata una sferzata perché io ci tenevo veramente. Allora ho preso la mia decisione.
Omelia della S. Messa alla XIV° Cappella.
Don Giancarlo. Noi siamo tentati dal male sia quando ci lasciamo soggiogare dai nostri stati d’animo sia quando ci lasciamo irretire da quello che la cultura dominante mette in circolazione..
Di frequente siamo anche lamentosi. Il lamento è l’espressione di un malessere. Il malessere più diffuso è conseguenza del non attingere più alla sorgente della Verità.
E qual è la verità sulla vita? “Dio non ha creato la morte. Dio ha creato tutto per l’esistenza. Dio ha creato l’uomo per l’immortalità ed ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza”. La morte tante volte non è solo quella biologica ma vi sono altri tipi di morte che sono entrati nel mondo per l’insidia del diavolo. E ne fanno esperienza quelli che amichevolmente ho denominati “sbirulini”. E’ un linguaggio di tipo indicativo non offensivo. Il libro della Sapienza usa un linguaggio da tritacarne. Ne fanno esperienza gli assatanati. Ma chi sono questi? Coloro che appartengono di più al diavolo, padre della menzogna e nemico della vita, perché omicida, piuttosto che al datore della vita, alla fonte della vita, colui che è qui in mezzo a noi e ci incita e ci dona le risorse. “ Come il tralcio unito alla vite dà frutto così chi rimane in me ed io in lui, porta frutti abbondanti”.
Giovanni al capitolo VI° del suo Vangelo ci ricorda: “Come io vivo per il Padre così chi mangia di me impara nel tempo a vivere per me”. E’ suggestivo che la pagina evangelica, proprio sulla concezione della vita che vuole educare, metta in azione Gesù di fronte a due scenari: quello della sofferenza e quello del pregiudizio. Nel primo è un papà che, di fronte al pericolo di vita e poi alla morte di sua figlia, si rende conto che l’uomo non è in grado di salvare l’umano e, per questo, cerca Gesù. Nel secondo Gesù arriva nella casa del capo della Singoga che lo aveva supplicato di fare qualcosa per sua figlia e vede trambusto, gente cioè che piangeva ed urlava. Gesù impone il silenzio che è la modalità più adeguata per partecipare al dolore altrui.
Gesù li caccia fuori e poi dice: La ragazza vive. Rivolto alla fanciulla le dice: Alzat!. Datele da mangiare per ricordare una evidenza: “ L’uomo sul fronte della vita è sempre debitore. Anche le risorse necessarie al suo mantenimento possono diminuire e hanno bisogno di essere reintegrate .
La lettera ai Corinzi fotografa la comunità di Gerusalemme alle prese con una stagione di indigenza. Paolo, venuto a conoscenza della situazione, raccoglie una colletta e la manda agli amici di Gerusalemme come segno di solidarietà comunionale.
Oggi è la giornata dell’obolo di S. Pietro. La colletta che raccoglieremo durante la S. Messa la daremo al Papa come nostro contributo alla sua carità nei confronti di altri popoli.