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Incontro 16 ottobre 2011

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Incontro 16 ottobre 2011

PRESENZA E AUTORITA’

Dobbiamo saper trovare delle autorità vere, che ci possano aiutare a discernere l’autentico senso della vita.

 

DON GIANCARLO: Vorrei sinteticamente introdurre il titolo del testo che utilizzeremo nel percorso che stiamo facendo e che intende educare ed educarci alla dimensione della comunione ecclesiale, perché in questo orizzonte che si chiama “comunione” l’umano di chiunque possa rifiorire. Il libro di Massimo Camisasca “La casa, la terra, gli amici” suggerisce un percorso che ci riconcilia con la nostra origine e con la nostra destinazione strutturale che è la felicità, è l’armonia di tutte le nostre componenti. Tutti abbiamo una casa ricca di affetti; tutti abbiamo una terra, un luogo dove si sta o si ritorna più volentieri, dove abbiamo le radici di una famiglia. Lì il pensiero torna ai legami più significativi; la memoria, quando si è lontani, diventa desiderio di una visita, di un ritorno sui propri passi. Anche la storia della Rivelazione di Dio è intessuta di luoghi. La storia sacra ha fatto conoscere a tutti noi

Abramo e la sua terra, il Tigre e l’Eufrate come ci ha fatto conoscere Gerusalemme e altri luoghi, in particolare Roma come sintesi di un prima, l’antico, e di un dopo, il nuovo Testamento. La parola amici non ha bisogno di essere approfondita anche se lo faremo, perché l’amicizia è il connettivo della nostra esistenza; le relazioni amicali sono l’intelaiatura lo scheletro portante del nostro io. La vita è intessuta dall’amicizia: un io privato di relazioni si involve, si dissangua, sta male, perché l’io è relazione con un tu e con un voi.

 

GIUSEPPE (Busto Arsizio):  Vorrei ringraziarvi per gli auguri che io e mia moglie Carla abbiamo ricevuto quando siamo diventati nonni. Il nostro nipotino Andrea è per noi una grazia di Dio;  nostro compito ora è  indirizzarlo verso la Sua parola. L’esperienza della vacanza che ho trascorso con alcuni di voi è una pagina del diario della mia vita da riguardare con felicità e gioia. Una cosa tuttavia mi ha rattristato: sapere che la mamma, che abbiamo avuto modo di incontrare in uno dei giorni di vacanza e che ha perso il figlio, viva la sua esistenza come una espiazione di quanto è successo. E’ come se per lei il Signore fosse morto. Dio invece non muore: il giorno in cui smettiamo di credere in Lui e di stupirci di quanto si rinnova attorno a noi, malgrado la sofferenza, siamo noi a morire. Per quanto riguarda il Meeting, mi sembra ogni anno sempre più bello: mi apre a qualcosa di nuovo.

 

ANNA (Busto Arsizio): Un passaggio della preghiera che recitiamo insieme e che riprende il versetto di un inno delle  lodi dice: “… e noi che di notte vegliammo attenti alla fede del mondo, protesi al ritorno di Cristo …” Questo richiamo alla fede del mondo mi è sempre sembrato un po’ oscuro, perché non riuscivo a metterlo bene a fuoco. Ultimamente mi è venuto spontaneo interpretare la “fede del mondo” semplicemente  come il desiderio di Dio che è nel cuore di ogni uomo e di pensare che le notti del mondo siano agitate anche da questo desiderio, benché spesso non riconosciuto, rinnegato o stordito in mille modi. Sicuramente invece è il motore di molte esistenze, di molti cuori. Tale desiderio può essere considerato come il “centro” della nostra vita.

Il desidero di Dio, tradotto esistenzialmente nel grande bisogno di avere Dio accanto a noi e di sperimentare il suo amore infinito, è sicuramente il centro della nostra vita, la cosa più utile per noi. Ci sono cose importantissime come la salute, soprattutto quando uno sa di poterla perdere, il lavoro, altra cosa importantissima, però non sono tutto, perché quando una persona non sta bene o è in grande difficoltà ha bisogno di “un oltre”.

Sulle mie labbra, durante la malattia, molte volte si sono quasi materializzate le parole: ”Signore non abbandonarmi. Accetto la sofferenza, ma io ho bisogno di Te, ho bisogno di un oltre, non abbandonarmi.” Anche Gesù sulla croce ha provato l’esperienza terribile dell’abbandono e ha pronunciato quelle sconcertanti parole: ”Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

Quindi quell’oltre, quell’Amore è veramente centrale per noi. Credo che la Chiesa come pure la nostra piccola comunità di credenti abbiano un grande  valore educativo; la vera amicizia che ci possiamo donare gli uni gli altri è proprio la testimonianza di questo Amore che sappiamo così fondamentale per la nostra serenità.

 

NATALE (Usmate): Poichè viviamo in un mondo in cui c’è una grande dispersione, dobbiamo ancora di più riconoscere che tutto quello che ci è accaduto, tutto quello che viviamo deve essere collocato nel segno del Signore. Questo ritrovarci insieme ci porta a far memoria dell’appartenenza al Signore, a cercare il senso autentico della sofferenza per la morte di un figlio.

La nostra presenza, i nostri volti sono segno tangibile di Gesù Cristo che dentro a questo dolore ci salva. Noi siamo chiamati  a farci compagnia, a far memoria di questo evento.

Capisco che la vita è faticosa: la famiglia nei suoi momenti di difficoltà è fatica; la precarietà o la mancanza del lavoro è fatica; la precarietà della salute è fatica, ma da soli non se ne esce.

 

ROBERTO (Vimercate): Questa settimana mi sono confrontato con una famiglia che ha perso un figlio e ho provato tanta rabbia. Quando rimani di fronte al fatto della morte improvvisa di un figlio, come anche a noi è capitato, rimani senza parole e inizialmente con tanta rabbia dentro.

 E’ difficile aprirsi a una convivenza, a una condivisione del dolore e a farsi aiutare.

Quando i dolori di una famiglia sono troppo grandi, a me trasferiscono tanta rabbia.

Viviamo su un terreno che alla fine è difficile per tutti: la morte di un figlio non è naturale!

 

MARY (Vimercate): Le parole sono inutili. Cosa avrei potuto dire a una mamma che ha perso un figlio? Qualsiasi parola diventa inutile. Ho tentato di dirle del nostro ritrovarci, ma ognuno ha il suo percorso, i suoi tempi di vita.

 

GIOVANNI (Busto Arsizio): Sono anch’io d’accordo. Se penso alla mia esperienza e a quella di mia moglie Anna, posso dire che abbiamo sofferto doppiamente. Anzitutto per la mancanza di un figlio, a motivo di una presunta sterilità, la “morte bianca”, che per certi aspetti ritengo peggiore della morte di un figlio.

Abbiamo poi dovuto lottare contro il non senso della morte per una malattia inguaribile di nostra figlia, Maria Gabriella, nata dopo quindici anni di matrimonio e vissuta solo cento giorni.

Mi ha salvato la fede in Cristo morto e risorto. E’ la luce di Dio che illumina le tenebre del non senso della morte di in figlio. Senza Dio la luce si affievolisce fino a spegnersi.

Nel relativismo che domina la nostra società consumistica dobbiamo saper trovare delle autorità vere che ci possano aiutare a discernere l’autentico senso della vita.

Noi possiamo essere solo strumenti di Dio per altri. Occorre la grande pazienza che nasce dalla convinzione che noi siamo solo strumenti di un progetto che va ben oltre a noi.

 

DON GIANCARLO: Mi soffermo su alcuni spunti che arricchiscono due sottolineature che Giovanni ha fatto emergere dalla sua esperienza: la presenza che porta in sé l’autorevolezza che semina sapienza, la pazienza di chi è fedele strumento di Dio.

La tua rabbia, Roberto, mi ha fatto pensare, per contrasto, alla desolazione umana di quella mamma, affranta per la perdita del figlio, che abbiamo incontrato durante le vacanze e che ha ferito il mio cuore: è stata la compassione che, dopo avermi messo alla porta in malo modo, mi ha portato, guardandola negli occhi, ad offrirle il mio aiuto, se un domani lo riterrà opportuno.

È diversa la posizione rabbiosa da una posizione di pietà. Nella rabbia c’è un retroterra che non solo è smarrimento, ma è anche insubordinazione: non trovando canalizzazione di sfogo, si coagula in un gorgo che fa pressione sull’io fino a farlo scoppiare anche in gesti, in espressioni irrazionali, persino folli.

Dove invece c’è la pietà, c’è un rincrescimento nel cui retroterra c’è un dolore colto anche se irrisolvibile al momento. Però ci sei tu che sei segno a cui, chi lo vuole, può ancorarsi; con la parola diventi segno di una presenza.

Anche se non parli, la tua presenza stessa parla con la tua vicinanza, con la tua mano, il tuo sguardo, con la tua capacità di ascolto anche degli sfoghi meno razionali e più immaturi.

Non puoi correggere perché in quel momento di grave difficoltà, in quella sorte di fiume in piena, il sostegno che può dare forza e speranza è già la tua presenza, il tuo ascolto.

Noi non siamo chiamati a risolvere quel determinato caso. Neanche Gesù è stato in mezzo a noi come risolutore di casi. Non si è posto come giudice di pace, ma si è posto come rivelatore del Padre. E cosa ha rivelato? L’amore, l’amore quale dono, accoglienza, condivisione, compassione, oblazione gratuita fino a darsi tutto: “Avendo amato i suoi, li amò fino alla fine”.

Da lì è nata l’umanità nuova costituita dalla Chiesa.

Detto questo, occorre fare attenzione che il constatare di non essere in grado non solo di risolvere ma neanche di essere per altri consolazione, non vuol dire fallimento.

Noi offriamo una possibilità a chi incontriamo e la offriamo nella libertà: ciò che è possibilità mette davanti alla libertà di una opzione; la possibilità, quando è lanciata come un dato, c’è e sarà sempre lì come pietra di inciampo o come pietra su cui ancorarsi.

Il fatto che Dio ci sia, il fatto che degli uomini, degli amici, dei vicini portino il segno della speranza di Gesù è regalare una possibilità di vita; magari ci vorranno mesi, anni, decenni perché porti frutto, ma questa possibilità c’è.

Il recuperare certe angolature, certi orizzonti lenisce la rabbia: la vita è un’avventura, un dramma, ma se abbiamo al fianco qualcuno più saggio, più maturo, si impara.

Noi abbiamo la gioia di attingere alla sapienza che innumerevoli uomini hanno avuto modo di intuire, di verificare, di purificare per poi sintetizzare e consegnare a noi sul fronte di quattromila anni, che hanno caratterizzato la storia del Vecchio e del Nuovo Testamento e la conseguente storia della Chiesa.

 

MARY (Vimercate): Di questo abbiamo già parlato in vacanza. Non basta dire “Signore, mandami la tua grazia”, bisogna cercare di realizzarla.

Andrò tra pochi giorni a Mediugorje: non chiedo miracoli, chiedo solo che mi si indichi una luce, una strada da prendere, un po’ di pace.

 

DON GIANCARLO: La fede è un dono che ci è stato seminato, ma chiede lavoro nell’essere custodito, difeso e nell’essere fatto crescere.

 

GIORGIO T. (Milano): Vorrei sottolineare il fatto che Famiglie in cammino è partita venti anni fa con un gruppetto di genitori accomunati dalla perdita di un figlio, offrendo loro una prossimità umana. L’iniziale gruppetto di genitori pian piano ha accolto altri genitori. Insieme, con l’amicizia di una compagnia e con l’aiuto del Signore, abbiamo cercato, e stiamo cercando, di trovare, dopo la tragedia della morte di un figlio, un nuovo senso della vita.

L’altro elemento, oltre la prossimità umana, che voglio sottolineare è, come dice benissimo il testo di Camisasca, la presenza di un’autorità che si traduca in un maestro, in un amico, in un padre che alla luce della sua esistenza contribuisce ad insegnare il senso della vita, le esperienze che valgono, i giudizi che illuminano. Noi di Famiglie in Cammino non saremmo cresciuti da vent’anni a questa parte se non avessimo trovato in don Giancarlo una guida illuminata, una guida come amico, come fratello e come padre. A questo riferimento alla Parola, alla Bibbia, all’esperienza e alla sapienza più che millenaria che la Chiesa ci dona, noi non ci saremmo arrivati se non ci fosse stato un amico come lo sei stato tu, don Giancarlo, a farceli capire e ad applicarli alla nostra vita, trovando un valore di salvezza nella croce della perdita di un figlio che tutti noi abbiamo subito.

 

DON GIANCARLO: Al termine di questo nostro incontro, voglio darvi le chiavi di approccio e di lettura costruttiva alla prefazione e all’introduzione del libro di Massimo Camisasca “La casa, la terra, gli amici”.

A pag. 9 viene indicata l’intenzione dell’autore. Egli desidera donare al lettore alcuni pensieri maturati lungo il suo cammino di fede, sorti e animati dalla preoccupazione per la credibilità della testimonianza cristiana, per la fedeltà all’evento che segnalò la nascita del cristianesimo, per la credibilità e l’affidabilità della Chiesa stessa. Essi fanno certamente riflettere in quanto partono da questo presupposto: riconoscere che la questione della fedeltà della rivelazione di Dio in Gesù Cristo è intimamente connessa con la domanda su ciò che è centrale e su ciò che invece non lo è nella vita di fede, nell’essere cristiani, nell’essere Chiesa. Quindi l’intento di Camisasca è tracciare quei contenuti che possono costituire il centro, il cuore, il punto sorgivo, la sostanza dell’esperienza cristiana. E lo ribadisce anche a pag. 10 secondo capoverso. In che senso la ricerca del centro può rappresentare la soluzione del problema della credibilità della testimonianza cristiana? Il centro è dato dalla esemplare esperienza degli apostoli, ossia l’esperienza di quella primitiva comunità di seguaci di Gesù che fu accolta guidata e “abitata” dallo Spirito Santo.

E insieme a questa c’è l’invito a considerare l’antica Regola monastica di San Benedetto da Norcia (V-VI secolo), fondatore del monachesimo in occidente. A pagina 12 attraverso la metafora della casa, l’autore interviene di nuovo a sottolineare e a illuminare meglio cosa sia il centro di una esperienza come quella cristiana. San Benedetto ha inteso proporre una forma di vita comunitaria in cui il punto centrale non fosse l’io con i suoi problemi, ma l’io proiettato alla ricerca di Dio che è la fonte della felicità. Una vita che in sintesi può essere espressa con la parola “casa” e che viene composta da quattro elementi essenziali: le mura, la terra, il padre e i fratelli.

Questo fattore della casa don Massimo Camisasca arriva a specificarlo ulteriormente. Casa, autorità, comunione, preghiera e missione sono come le torri che emergono da una vita e che diventano punti di riferimento oltre che risorse cui attingere.

A pagina 13 si afferma che la casa o il centro è il luogo che alimenta la nostra memoria di Cristo; è ciò che fa entrare tutte le cose e le persone che incontriamo nel nostro dialogo con Dio.

A pagina 17 fino a pagina 19 l’autore viene poi a descrivere, a documentare il contenuto della parola centro o della parola casa attraverso l’espressività suggestiva dell’esperienza dell’amicizia.

A pag. 23 e 24 troverete come don Massimo evidenzia il cuore del cristianesimo e in esso la centralità di Cristo. A pag. 27 e 28 mette in una relazione profonda la parola comunione con i suoi contenuti e la parola affettività, che è una dimensione della comunione.

A pag. 29 e 30 insiste sulla questione dell’autorità, condizione indispensabile per vivere una centralità di sé.

 

NATALE (Usmate): Nel chiudere questo incontro, mi permetto di dirvi che ho avuto la fortuna con mia moglie Flora di essere a Lamezia con il Papa. Abbiamo pregato anche per tutti voi e per i nostri amici, con la speranza che il Signore ci tenga sempre la mano sopra il capo.

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