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Incontro del 20/02/2011

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Milano, 20 febbraio 2011

IL VALORE DELLA CONVERSIONE

 

Nell’incontro con Gesù sorge l’importanza di una compagnia di persone all’interno delle quali emerge il desiderio, il tentativo, la domanda che ci porta a convertire la mentalità e a trasformarci da persone colpite dalla tragedia per la morte di un figlio a persone nuove, a uomini vivi, donne vive.

GINO (Milano): Mi auguro che questo nostro incontro ci faccia tornare a casa con un cuore diverso e pieno di letizia. Quando io vengo qui, specialmente in questo momento che devo sostituire Natale, il nostro coordinatore, ho un puntino di orgoglio perché in mezzo a voi mi sento benissimo. Dò il benvenuto a nome vostro a una nuova famiglia, Sergio e Roberta; anch’essi hanno provato, e stanno provando, il cocente dolore della perdita di un figlio. Stiamo a loro vicini, come altri lo sono stati con noi e con la loro compagnia siamo riusciti a riprendere e a dare senso alla vita.

FLORA (Usmate): Porto i saluti della nostra amica Anna Rimoldi, che ci segue da lontano perché ancora non può venire per motivi di salute; ci è vicina: ci sentiamo spesso per telefono e ci aiuta da lontano con le preghiere e con l’opera. Ci chiede anche di pregare per una sua cara amica, Mary, che è morta all’improvviso.

DON GIANCARLO: Con la nostra preghiera Tu che adesso vedi senza ombre… e con il nostro canto Pon tus mano iniziamo questo incontro. Questo nostro canto è un invito a non ritrarsi, ma a consegnarsi a Gesù ascoltando la sua parola. L’assemblea dello scorso mese è stata, come in altre occasioni, molto ricca di esperienze: noi privilegiamo le esperienze, non i discorsi, perché è nel vivere che uno impara a riconoscere le lacune e anche a percepire le corrispondenze. Quando c’è corrispondenza con ciò che il cuore desidera , vuol dire che si è veri . Vuol dire che si è fatta un’esperienza vera, in cui è emersa un’ intuizione che poi ha preso forma e ha illuminato un pezzo di strada.

C’è poi un secondo livello che è esigibile da chi da tanto tempo è con noi e condivide anche il metodo per compiere dei passi. La parola metodo richiama la strada da percorrere. Un aiuto a percorrerla ci viene offerto dall’opuscolo “Vivere è la memoria di Me”, che il Direttivo ha scelto per quest’anno. Con questo aiuto stiamo lavorando per imparare a confrontarci, malgrado che il nostro cuore assomigli alla vigna trasandata di Renzo di manzoniana memoria, su una proposta che ha come obiettivo di “Imparare a vivere la memoria di Me” attraverso l’incontro con Cristo per chi l’ha fatto o per quella miniera inesauribile che è l’io. L’ io è caratterizzato dal desiderio dell’infinito. Allora il consiglio che ci diamo è vivere l’esperienza di “Famiglie in cammino”, perché vogliamo essere una scuola tra di noi, una scuola di vita. La nostra modalità di trovarci è quella di raccontarci, perché la confidenza ricca di racconti, di esperienze possa diventare edificazione reciproca.

FLORA (Usmate): Voglio raccontare un’esperienza che ho vissuto la settimana scorsa: sabato e domenica scorsa nel mio paese è stato ordinato sacerdote Daniele, un giovane che io e mio marito Natale abbiamo visto nascere e che ben conosciamo. E’ un giovane che proviene da una famiglia che ha conosciuto il carisma di don Ugo De Censi, fondatore del Mato Grosso, una organizzazione non governativa di volontariato che opera soprattutto nell’America Latina. La partecipazione all’Ordinazione sacerdotale di questo giovane per mano di un Vescovo del Perù è stato un fatto eccezionale, che per me e quanti hanno assistito ha manifestato una Chiesa viva, che ha coinvolto l’intero paese, per l’occasione addobbato a festa.

E’ stata un’ esperienza commovente, che ci ha fatto toccare con mano il valore della fede e l’universalità della Chiesa con la molteplicità dei suoi carismi. Per me e mio marito lo è stato l’incontro con don Giussani e il carisma di Comunione e Liberazione, per Daniele l’incontro con don Ugo e il carisma del gruppo Mato Grosso. In occasione di questa Ordinazione ho capito ancora di più cosa è la Chiesa e quanto è scritto nel libretto che stiamo meditando: “La coscienza di appartenere a Cristo, la coscienza che io appartengo al suo corpo che è la Chiesa, la coscienza che io appartengo a questa sua Grazia che vale più della vita”. In effetti questa Ordinazione sacerdotale mi ha fatto proprio capire cosa è la Chiesa e in essa l’incontro con Cristo. Dobbiamo saper vivere questo incontro e questa appartenenza, ciascuno nel proprio cammino, nel proprio percorso, ma per la costruzione di una Chiesa grande. Veramente io ho provato un’esperienza che credo non proverò mai più nella mia vita.

DON GIANCARLO: Non dire “mai”. Chi dice così introduce nella vita la sua misura, mentre la vita non è determinata dal nostro metro di misurazione; è misurata e condotta da un disegno che non conosciamo, nei suoi tempi, nelle sue forme espressive e nei modi con cui aggancerà la mia vita. E’ più giusto dire di fronte alle cose belle: siccome è accaduto questo fatto, mi auguro che riaccada.

Se uno vive un’esperienza che lo rende felice, il timore che ha è che la felicità finisca; teme il tramonto mentre desidera la permanenza con la speranza che continui.

GABRIELLA (Tradate): Leggendo, sia pure velocemente, il libretto “Vivere è la memoria di Me”, sono stata colpita dal termine “conversione” intesa come cambiamento. Mi ha ricordato un’affermazione di Padre Turoldo espressa nel suo libro “Percorso verso la fede”. Padre Turoldo insisteva molto nel sottolineare che conversione non vuol dire al limite cambiare religione, ma vuol dire cambiare modo di pensare, cambiare mentalità, quindi cambiare. Ed è questa la vera conversione a cui forse noi siamo stati costretti dall’avvenimento tragico della morte dei nostri figli. Convertirsi vuol dire cambiare, ma non è facile perché cambiare il modo di pensare vuol dire convertirci secondo quello che ci viene suggerito dal Vangelo o dalle persone che ci sono vicine e che si ispirano al Vangelo. Non so se succede anche a voi; io mi trovo a rivolgermi al Signore chiedendogli cosa farebbe in questa circostanza se Lui fosse qui , quale sarebbe il suo comportamento se, anziché fosse venuto su questa terra duemila anni fa, arrivasse adesso; se, presentandosi qui, quale sarebbe il suo giudizio sulla mia vita. Con queste domande cerco allora di cambiare. Mi ha fatto piacere trovare questo richiamo alla conversione!

DON GIANCARLO: Per quanto riguarda il contenuto e la traiettoria della conversione, invito a leggere la lezione di Carròn e la citazione di don Giussani a pagina 41. Conversione deriva dal latino “vertere”, che vuol dire fare dietrofront, vuol dire rovesciare, girare sguardo, posizione. Un bambino che è solo e si mostra spaventato, non appena sente la voce della mamma e del papà corre verso di loro: si converte, si gira verso di loro; in quel momento il pianto è come abbracciato; il pianto è proprio quello che lo mette in rapporto con la mamma. Noi pensiamo che qualsiasi ferita - e voi portate delle cicatrici che si rimargineranno solo in Cielo - sia un ostacolo; invece per il bambino è immediatamente l’occasione di sperimentare la compagnia che lo rende contento. Lì ha modo di verificare il bene che la mamma è per lui: la mamma non è qualcosa di astratto, è una presenza che quando entra nell’orizzonte del bambino lo converte, cioè gli fa cambiare stato d’animo. Analogamente la conversione è il riconoscimento che” io sono Tu”. Io Ti appartengo. Questa è una compagnia cristiana non ridotta, l’unica compagnia che libera, perché la compagnia non è il semplice trovarsi bene con qualcuno, che pure è già una bella cosa, ma è quel tipo di relazione che ti aiuta a far memoria, a recuperare o a vivere la coscienza piena che tu appartieni ad altro da te. La compagnia di cui si parla è quella che c’è per il fatto che ti incontra e ti aiuta a spalancare il cuore puntando là: invita a convertirsi. Se sei distratto, se sei ingolfato nelle preoccupazioni, la vera compagnia ti aiuta a non preoccuparsi innanzitutto dei particolari, ma a cercare l’essenziale a cui il Vangelo chiama, al Regno di Dio. Il resto ti verrà dato, ma in modo diverso da prima come nel caso di Zaccheo, l’esattore che riscuoteva tasse per i romani, inviso ai suoi correligionari perché condannabile in quanto venduto a una potenza straniera e perché con le riscossioni non mancava di aggiungere una sorta di cresta personale. Sapeva quindi di essere disprezzato, ma l’attrattiva di quell’uomo che doveva arrivare a Gerico lo ha portato, per vederlo, a nascondersi sul sicomoro. Attenti al passaggio di Gesù e al punto delicato della conversione! Quando Gesù l’ha chiamato, per Zaccheo, prima di scendere dall’albero, è trascorso senz’altro qualche secondo, magari un minuto: è quello che don Giussani chiama “l’istante prima”. Nella vita ciò che conta è l’istante prima, cioè cosa passa nell’io fra il momento della provocazione della realtà, degli altri, dei casi della vita, dei problemi, delle responsabilità, e la discesa dall’albero, cioè la scelta della tua libertà, la risposta che nasce dal tuo cuore. La conversione è in quell’istante prima. Ciò che determina la vita è l’istante prima, cioè quando intravvedi, quando hai la percezione, l’intuizione che lì c’è la presenza, la presenza del Mistero. Allora ti converti, giri sui tuoi passi come il bambino che prima dell’incontro con la mamma si sentiva solo, perso, ma che alla voce della mamma un istante prima dell’abbraccio si converte, si volge cioè verso di lei. La conversione si ha quando, percependo la voce che ci indica la direzione, si cambia la mentalità. Per ciascuno di noi la conversione è Grazia: è la chiamata da parte di Gesù nei confronti del Zaccheo di turno o del condannato a morte di turno, come nel caso del ladrone convertito: “Oggi sarai con me in Paradiso”. O ancora nei confronti di quella prostituta che ha rischiato la lapidazione da parte dei suoi correligionari e invece ha conosciuto la misericordia di Gesù: “Va’ e non peccare più!“. Chissà che occhi brillanti di gioia, di riconoscenza, di commozione avrà vissuto: quello è l’istante prima! Se uno percepisce la conversione come bellezza, come rivoluzione che libera, allora la custodisce, la alimenta . Se uno non la vive come emozione, la esaurisce. Guardate che oggi siamo in una società massacrante, perché quello che gli uomini e le donne cercano sono emozioni fine a se stesse: non cambia nulla, non convertono le emozioni; le emozioni danno solo delle sensazioni.

Nell’incontro con Gesù sorge l’importanza di una compagnia di persone all’interno delle quali emerge il desiderio, il tentativo, la domanda che ci porta a convertire la mentalità e a trasformarci da persone colpite dalla tragedia per la morte di un figlio a persone nuove, a uomini vivi, donne vive, desiderose di prendere in considerazione tutti gli aspetti della vita, compresi i momenti di divertimento e di generoso volontariato. Questo è l’esito della conversione!

GABRIELLA (Tradate): Su questo libretto, “Vivere è la memoria di Me”, che per me richiama quello di Padre Turoldo, trovo conferma che bisogna cambiare mentalità, bisogna convertirsi.

DON GIANCARLO: Bisogna domandare la grazia della conversione e accettare il lavoro di conversione su di sé. Conversione che, malgrado il mio passato, diventa testimonianza data al presente, scelta di campo nel presente, gesto di appartenenza. Certo, la conversione non è automatica: è una decisione della libertà; importante però è riconoscere a chi appartengo ora. Ciò che il tuo cuore desidera sarà sempre l’effetto dell’appartenenza a Lui che è tutto. Zaccheo, quando ha deciso, malgrado il suo passato, di appartenere a Gesù, ha risposto sì alla richiesta: “Vorrei fermarmi a casa tua a pranzo” e con il suo sì è emersa la sua conversione: “Per l’incontro che tu mi hai permesso di fare con te, io da oggi in poi cambio vita. Ho deciso di restituire quattro volte di più quello che ho rubato “. E Gesù a quel punto esce in quella esternazione di grande valorizzazione: “Oggi in questa casa è entrata la salvezza!”. E’ la Grazia che cambia, non sono gli sforzi: lo Spirito ti sorprende attraverso qualcuno, attraverso delle esperienze mediante le quali cogli la luce, intravvedi una possibilità, una promessa. Lo sforzo che è chiesto a noi è come quello di Maria con il suo sì: fiat, mi accada quello che tu, angelo, hai portato in casa mia, quello che Tu Dio hai seminato nel mio cuore, mi hai messo davanti. Posto come Maria di fronte ad un bivio, devo decidere se ne vale la pena o no, se mi conviene o no, se è un guadagno o una perdita quello che la Grazia prospetta nel mio cuore. Ci capiamo?

ROBERTO: Sì, ci capiamo. La conversione se è per Grazia bisogna accettarla, impegnarsi; se è così, ben venga. Sono trascorsi appena sette mesi dalla perdita di mio figlio. Di fronte a questa dolorosa perdita, io guardo il crocifisso e mi rivolgo al Signore. Parlando di conversione, non riuscirò mai a capire una Claudia Koll o un Brosio che si sono convertiti: non è facile. Di fronte a persone come voi, con le quali condivido la perdita di un figlio, avverto un inizio di conversione che è speranza: se ce l’ha fatta lui, ce la posso fare anch’io! Due mesi fa, quando sono venuto da voi, c’è stato chi mi ha detto che poi bisogna saper passare oltre, non prendersela continuamente con Dio; dopo lo sfogo è necessario saper trasformare il proprio dolore. Ecco, io penso che questa sia la conversione: riuscire a venire qui, saper fare un sorriso perché forse qualcosa dentro di me si è illuminato. Forse è vero che comunque questa conversione mi deve portare a trasformare qualcosa di così doloroso in una cosa che si trasforma in meglio, e forse c’è un perché. Io il perché lo intendo in modo globale, in umanità. Purtroppo qualcuno non riesce a portare la propria croce. Ringrazio tutti voi e don Giancarlo che ci state portando gradino per gradino sulla scala della conversione.

DON GIANCARLO: Sai come chiamiamo noi questo esodo, questo passaggio? Trasfigurazione: il dolore, il male si trasfigura quando per un significato nuovo e più profondo pesa di meno, ferisce di meno . Non scompare, ma ne vedi una soluzione di attenuazione, che poi nel tempo può arrivare anche alla pace, alla conversione. Attraverso la conversione alla pace si può addirittura arrivare a capire che tu sei stato un prescelto, un selezionato incaricato di portare nella vita della Chiesa o nel mondo un messaggio nuovo, una testimonianza che si può vivere tutto, anche le tragedie sfracellanti, nella speranza. Io l’ho capita. Te ne parlo in termini personali, perché avendo perso la mamma a tre anni e mezzo ed ero il terzo figlio, fino ai diciotto vent’anni ho patito la carenza affettiva. Non mi è mancato nulla dai nonni, dagli zii, e da una zia in particolare non sposata, che mi ha seguito poi anche da prete; però poi cammin facendo, quando mi sono accorto che - non so se anche grazie a questa ferita che mi ha privato della gioia di crescere in una famiglia con la mamma e il papà - mi son trovato nel corso della vita e da prete capace di svolgere una missione anche di conforto. E ho cominciato a capire che Chi ha permesso che accadesse a tre anni e mezzo quello sfregio era perché imparassi, cammin facendo, delle cose che ora metti a frutto di altri e che mi ha spinto diciannove anni fa a dire ”ci sto” ai primi di Famiglie in Cammino. Può accadere anche questo, ma uno lo scoprirà nel tempo, perché è nel tempo che il disegno di Dio si svela fino in fondo e fa apparire il male come bene. A chi si trova nelle vostre condizioni di ferite fresche, dove il subbuglio, il caos e la ribellione sono fortissime, io dico di non fermarsi alla domanda PERCHE’ o Signore hai voluto o hai permesso questo, ma di cambiarla: siccome Tu lo hai permesso perché non cade foglia che Dio non voglia, ti chiedo dove vuoi portarmi, che cosa vuoi insegnarmi, che cosa vuoi aiutarmi a capire di ciò che non ho ancora capito.

E’ diverso: nel primo caso si è sempre in conflitto, nel secondo caso si parte da una accettazione, non desiderata e non ancora capita, ma con il cuore aperto, con la ragione attenta a decifrare i segni. E i segni non li puoi progettare; i segni irrompono nella vita. Se uno è vigile ed attento li identifica, li interpreta; ma se uno è distratto o ripiegato sui suoi malanni, neppure ha la possibilità di cogliere i segni.

ROBERTO: Io credo che questo sia un passo obbligato per chi è in cammino. Posso accettare quello che è successo, ma non posso dire che sia giusto. Non posso ammettere che sia giusto!

DON GIANCARLO: Ci chiamiamo “Famiglie in Cammino”, per questo.

ROBERTO: L’importante è non farla passare come mascherata di … una setta!

DON GIANCARLO: Non è la mistica del dolore. Guai!

ROBERTO: Proprio la pazienza di camminare gradino per gradino non deve venir meno. Ma è difficile, specie nei momenti in cui si sente forte la mancanza del figlio. Ci si può sentire distrutti! Così di fronte alla sofferenza di mia moglie ritorna impellente la domanda del primo perché. A mia moglie dico sempre che non siamo soli: guarda quante persone sono nella nostra stessa condizione! Ma…

SERGIO: Sono sposato, ho tre figli, avuti dalla mia prima moglie che è morta a quarant’anni per un tumore. Dopo quattro anni dalla morte di mia moglie, è morto mio figlio Mirko che aveva 14 anni per un incidente in motorino. Poi ho conosciuto Roberta: a lei è morto poco tempo fa il figlio di ventidue anni. E’ da due anni e mezzo che ci siamo sposati ; io penso di aver superato in un certo qual modo il lutto, mentre lei, probabilmente perché è trascorso poco tempo, è ancora molto scossa. Io ho perso moglie e figlio ed è stata dura! Mi sono trovato da solo con tre figli maschi. A questo punto mi sono detto: cosa faccio? Il più piccolo aveva sei anni: quando ha iniziato ad andare a scuola lo accompagnavo io; gli ho fatto da mamma e papà. Ora è successo a Roberta di sperimentare anche lei la morte di un figlio, e siamo qui.

GINO (Milano): Anche se la maggior parte delle persone che sono qui conoscono già la mia storia, vorrei tornare indietro a quando è mancato mio figlio Luca in un incidente. Luca apparteneva alla compagnia di Comunione e Liberazione, ma io non lo sapevo. Ho potuto però sperimentare con mia moglie Maria Rosa l’accoglienza, il calore umano degli amici di Luca e di altre persone appartenenti a Comunione e Liberazione. Noi però avevamo bisogno d’altro: quando il loro sguardo, che ci aveva affascinato, è diventato il nostro sguardo, il nostro cuore si è aperto. Con mia moglie ho sentito il bisogno di appartenere a questa stessa compagnia. Questa appartenenza non ci ha condotto a stare fermi, ma con altre famiglie ci ha portato a fondare questo gruppo di ” Famiglie in Cammino”. Insieme ci siamo detti: con la dolorosa perdita dei nostri figli il Signore ci ha anche toccati con la sua Grazia. Dobbiamo cercare di portare speranza là dove viene chiesto il nostro aiuto, perché, come ci ha ricordato il card. Martini in un incontro che “Famiglie in cammino” ha avuto alcuni anni dopo, noi stessi abbiamo sperimentato sulla nostra carne cosa voglia dire la sofferenza per la perdita di un figlio. Questo dolore anche con il tempo non finisce; è una ferita che, come ricorda don Giussani, si rimarginerà pienamente solo in Cielo. Però la possiamo trasformare, trasfigurare e in questo senso è nata “ Famiglie in Cammino”. Non è una setta! E’ una cosa bella perché uno riesce ad avere quell’apertura di cuore da essere libero completamente e da far entrare Cristo dentro di sè, affidandosi ogni giorno a Lui. La ferita per la perdita di mio figlio Luca rimane in me, ma con il tempo - ognuno ha i suoi tempi di cammino - ho imparato di essere stato toccato dal Signore e a vedere di conseguenza la vita in un modo più positivo.

ROBERTA: Mi piace pensare che mio figlio Davide si trovi in Cielo. Ma quando sto male no: so solo che Davide è morto e, come ho sentito prima dire, non è giusto che siano morti i nostri figli; non è giusto che sia morto mio figlio come non è giusto, guardando il telegiornale, vedere ragazzi morti a causa di un incidente! Non è proprio giusto: ci sono persone anziane che soffrono in un letto ma non muoiono, mentre i nostri ragazzi che erano giovani non ci sono più. Pensare a quello che dicevate del Signore ecc. mi sembra assurdo. Il mio Davide non c’è più, è sottoterra: lui che aveva voglia di vivere! Io che non ho voglia di vivere perché sono ancora viva? Come diceva sempre il mio Davide, bisogna essere felici, bisogna ridere. Io invece non riesco a dire che sono felice, non riesco a ridere; a volte mi sforzo, ma non ci riesco. A volte mi scappa un sorriso, ma quando me ne rendo conto capisco che non devo sorridere perché Davide non sarà mai felice, non vedrà più il sole, non vedrà più le piante, non vedrà suo nipote crescere. Non è giusto! L’unica cosa positiva è che il Signore me lo ha portato via in un modo pulito. Davide era entrato in un giro, in un brutto giro. Quando è morto, pensavamo che fosse deceduto per le botte ricevute, per un’emorragia alla testa. Dopo sessanta giorni dalla morte ci sono pervenuti i risultati dell’autopsia, da cui risultava che era morto a causa del monossido di carbonio. Quella sera non è rientrato in casa, ma ha dormito in macchina perché non voleva farsi vedere con la faccia livida di botte. Ha voluto dormire in auto dentro il garage: deve avere acceso l’auto per scaldarsi e alla fine ha respirato il monossido della macchina. L’unica cosa positiva che io so è che il Signore, prima di farlo morire o per droga o per le botte, lo ha portato via in un modo pulito. E’ l’unica cosa positiva che posso pensare del Signore; ma come faccio a pregare una “persona” che ha portato via mio figlio, che fa morire tante altre persone e altre ne fa soffrire? Io non credo al diavolo, ho sempre creduto nel Signore, ho creduto in tutto quello che ha fatto Gesù e in quello che ha fatto Dio. Ma non è giusto che me lo abbia portato via. Guai a toccarmi il mio Davide! Aveva tanti amici, non quelli cattivi, altri amici. Se non fosse morto, non avrei scoperto questa dote positiva di lui: tante persone gli volevano bene! Il mio carattere di persona chiusa mi porta a stare con grande difficoltà in mezzo alla gente, cosa che con voi invece non mi capita. Mi piace comunque stare con i ragazzi e vedere quelli che sono stati con mio figlio.

DON GIANCARLO: La libertà, la fiducia e la confidenza che Roberta si è sentita di dare ci ha reso partecipi del suo dramma. Qui, in questo ambito, non si è mai a senso unico; ma qui tutte le strade si incrociano sul punto della prova, della croce, del dolore, che in tanti è stato trasfigurato e liberato dall’appesantimento del male. E il dolore è male. La morte è un male a tutte le età; sotto questa soglia non si può scendere. Ma è intervenuto un fatto: Dio in Cristo si è fatto uomo, si è fatto carico di tutte le croci e le ha riscattate caricandole di un significato di redenzione, di amore. Ci dice: imparate da me, io sono la strada, sono tutto.

E con Cristo, all’interno della Chiesa, a chi ha vissuto vite strappate, ferite, io dico: uomini e donne per vicende variegate, cammini diversificati, con tempi e forme di maturazione diverse, sono arrivati a dare un senso al non senso, a caricare di un significato di speranza quello che all’inizio ha distrutto la speranza o l’ha messa sull’orlo dell’abisso. Io qui posso dire che la conversione è possibile ed è frutto della Grazia e della decisione della libertà. E’ difficile ma è bella; per superare le difficoltà non bisogna fissare lo sguardo sulle difficoltà, ma sul fascino. E’ il fascino dell’alpinista che seguendo altri si arrampica sulle montagne e conquista le vette. Io l’ho sperimentato; la paura della sfida e della difficoltà c’era; quello che mi ha dato l’ardire di superare la paura e di rischiare non era la difficoltà perché la difficoltà ti impianta, ma era la prospettiva della bellezza, della conquista, del superamento . Ecco, questo è un ambito nel quale ci si aiuta: non c’è nulla di automatico, di meccanicistico. Qui, in “Famiglie in cammino”, non trovi gente settaria. Trovi gente in cammino, peccatrice, debole che chiede aiuto ed è disposta a dare aiuto. C’è gente normale; il buon Dio ci ha dato la capacità di stare insieme. Io sono uno dei tanti e sono qui con il mio “timbro” di vita. Ciascuno è qui con il suo “timbro”. La speranza è legata a chi ti affidi e al perché. L’affidarsi a un cammino è meritevole perché è la legge della vita, è la legge della natura: uno nasce perché si è fidato per nove mesi pur non sapendolo; la natura lo ha affidato a una donna madre. Uno si educa, entra nella vita perché si affida e seguendo altri ascolta; imparando, ascoltando e vedendo cresce, matura, impara fin quando gli è dato, in parte, di dire: adesso posso stare in piedi da solo. Un po’ mai da solo, tant’è vero che i drammi più atroci della vita sono le solitudini, e le solitudini nascono dal vedersi isolati, non cercati, non amati o anche dall’essere in mezzo a migliaia, ma non capiti e non risolti. Invece noi abbiamo quell’Uomo che è Dio e che è capace di miracoli. Miracolo è l’impossibile che diventa possibilità su cui io posso contare.

Chiudiamo con una preghiera per chi vive ancora atrocemente la sofferenza per la perdita del proprio figlio, quella cocente esperienza che per tanti è diventata un’esperienza attenuata, trasfigurata, o un ricordo più del passato che dell’adesso. Tutti abbiamo bisogno della luce che illumina e che è dono di Dio.

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