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Incontro del 23/01/2011

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MILANO, 23 GENNAIO 2011

 

 

 

LO SGUARDO DI DIO SULLA MIA VITA

 

Il contenuto della speranza non è nelle circostanze dei fatti particolari ma in quello sguardo, in quella presenza che risale a Gesù.

 

NATALE (Usmate):  Saluto tutti voi e vi auguro Buon Anno. In particolar modo saluto i signori Marittimo che conosciamo per la prima volta. Riprendiamo il nostro cammino lavorando sul testo “Vivere è la memoria di me”, per facilitare il nostro stare insieme e per confrontarci su quei contenuti che fanno parte della nostra vita.

Vorrei però partire da una nostra esperienza. Ieri sera con mia moglie Flora ero a cena con degli amici; per l’occasione ho invitato due famiglie che ormai da sei, sette anni hanno perso entrambe l’unico figlio. E’ stata una cena conviviale, ma quando siamo entrati nell’argomento, e in particolare sul valore della speranza cristiana, c’è stata come una chiusura, soprattutto da parte di un papà che ha detto: “Rispetto a quello che vivo oggi, perché mi dovrei confrontare con quello che è accaduto duemila anni fa? E’ ancora valido e proficuo pensare a Gesù Cristo che è vissuto duemila anni fa? Che rapporto c’è con quanto sto vivendo oggi e soprattutto con la perdita del mio figlio?”.

La cosa si è fermata lì anche perché vi erano altre persone e non abbiamo voluto insistere. Ci siamo trovati in difficoltà perché il nostro interlocutore opponeva alle nostre ragioni il fatto che il progresso, il vivere moderno ecc. ecc. non danno  più  senso alla nostra proposta. Era evidente che qui vi era un ostacolo che per noi era difficile superare. Lo dico perché vorrei essere aiutato.

 

DON GIANCARLO:  Il testo proposto per l’approfondimento risponde a questo quesito. Chi ha colto la sottolineatura più profonda trova la risposta al quesito e parte da un caso concreto. Carron ha parlato di un certo Giuda il cui cuore all’inizio era un cuore vibrante poi avendogli permesso di diventare di pietra, è finito male.

 

NAZZARENO (Tradate):  Nel Vangelo di oggi si racconta il miracolo della moltiplicazione dei pani da parte di Gesù. Con questo miracolo il Vangelo ci insegna innanzitutto a fidarci del Signore, perché Lui sa cosa fare di noi. Nel preciso punto dei cesti che raccolgono gli avanzi, io interpreto che richiamino l’immagine degli Apostoli e potremmo dire anche di noi, dei sacerdoti e dei vescovi che raccolgono i pezzi avanzati. Credere in Dio io penso sia una fortuna perché Dio ci assiste in ogni momento, è sempre al nostro fianco ed è sempre pronto a darci una mano, anche quando cadiamo nel peccato. Per me sono cose fondamentali, perché vivere nella fede, seguire giorno per giorno, ora per ora, ci porta avanti meglio, ci dà la vita, ci dà la speranza.

 

DON GIANCARLO: E’ questa una interpretazione “nazzarena”; non è quella del Magistero sulle dodici ceste avanzate, ma è suggestiva.

 

GIORGIO T. (Milano): Mi ha particolarmente colpito una frase di padre Aldo, missionario in Paraguay dove opera presso un ospedale per malati terminali, che ho letto in questo capitolo del libretto che dice: “Ho incominciato a guardare me stesso non come mi guardo io, ma come mi guarda Dio”. Questa frase mi ha colpito perché anch’io mi sono chiesto: “Ma come mi guarda Dio?”. La risposta di padre Aldo ricalca la mia esperienza perché ricorda che ciò che ha dato concretezza alla figura di Cristo è stato il modo con cui l’ha guardato don Giussani: Cristo è diventato così per lui una presenza concreta. Ecco, io ricordo che dopo pochi mesi dalla morte di mio figlio Leonardo, eravamo nel 1987, ho avuto la grazia di incontrare don Giussani. Con mia moglie Raimonda eravamo nel maggio del 1986 agli Esercizi di Rimini e lui ci ha guardato proprio come un buon padre; abbiamo sentito nel suo sguardo la misericordia di Gesù Cristo e la forza di andare avanti accettando da Dio il suo disegno sulla nostra vita con coraggio e nella preghiera. Il titolo degli Esercizi della fraternità di quell’anno era: “Vivere con gioia nella terra del mistero“, cioè accettare da Dio il mistero del suo disegno di salvezza, che per noi significava l’evento doloroso della perdita di nostro figlio. Ecco l’importanza di uno sguardo. Quello  sguardo di don Giussani, in quel momento, è stato proprio per noi un punto di ripartenza della nostra vita, un punto da cui abbiamo reimpostato il nostro cammino di fede; l’inizio per capire che quello che Gesù ci aveva dato non era solo per noi, ma era una possibilità di dimostrare che Lui ci stava dando una grazia, un sostegno misterioso grazie alla compagnia nella quale Lui ci aveva inseriti. Da quello sguardo nasce anche il nostro contributo, qualche anno dopo, a iniziare “ Famiglie in Cammino”, perché quello che è successo a ciascuno di noi possa aiutare altri in un cammino di fede e di speranza, di vicinanza e di condivisione.

 

RAIMONDA (Milano): Voglio aggiungere che don Giussani non solo ci ha guardati con uno sguardo che non avevo mai visto in altre persone, ma, pur non conoscendoci, ci ha guardati come se facesse parte della nostra vita e che stesse veramente condividendo tutto. Da allora non ci ha abbandonati, perché da quel momento non solo abbiamo seguito ancora gli Esercizi e quanto lui diceva, ma, parlando di “Famiglie in Cammino”, più volte ci ha incoraggiati dicendoci che sarebbe venuto un giorno da noi. La malattia gli ha impedito di realizzare questo proposito, ma credo che don Giussani ci abbia accompagnati come se noi fossimo sempre nel suo cuore, come se lui prestasse a Gesù le sue mani, la sua bocca, la sua umanità.

 

GIORGIO T. (Milano): Avendo  scritto a Don Giussani per informarlo della partenza di “Famiglie in Cammino”  lui ci ha risposto con la famosa frase: “Io mi sento piccolo di fronte al cuore grande con cui voi, accogliendo da Dio una ferita che non si rimargina se non in Cielo, volete farne per la terra un solco di seminagione buona da testimoniare e confortare.” Ecco, questa sua benedizione, questo suo incoraggiamento, questa sua capacità di tradurre un evento tremendo come il nostro in una occasione di resurrezione e di aiuto agli altri in un cammino di fede, è stato il punto di partenza di “Famiglie in Cammino”. Diciamo che è stata una grande benedizione questo uomo: un grande educatore, uno che parlava chiaro guardandoti negli occhi per dirti: “Sono con te, il Signore ti aiuta, vai avanti”. Ecco, ci aiutava ad  aprire gli occhi sul mistero di Dio.

 

RAIMONDA (Milano): Della preghiera composta da don Giussani e che noi recitiamo, penso sempre all’ultima frase dove ai nostri figli ci rivolgiamo così: “Adesso tu ci guardi con lo stesso sguardo di Colui in cui sei”. Questo ci insegna che i nostri figli, che partecipano della beatitudine di Dio, ci stanno accompagnando. Tutti loro sono con noi ora; anche chi aveva litigato o aveva avuto delle incomprensioni non deve temere perché per i nostri figli è tutto dimenticato, adesso sono con Gesù, completamente disponibili, pieni solo di misericordia e di partecipazione alla nostra vita, alla nostra salvezza , al nostro cammino.

 

DON GIANCARLO: Attenzione, chi ha letto approfonditamente le pagine di “Vivere è la memoria di me”, si imbatte in quel personaggio famosissimo che è Giuda, il quale era stato guardato da Gesù in modo tale da venirne attratto, così da diventare un discepolo confidente, famigliare, ricevendo stima e valorizzazione (amministrava la cassa degli apostoli). Eppure malgrado ciò, Giuda dopo tre anni si è trovato con il cuore di pietra, disperato.

E’ l’esperienza che hanno rischiato altre persone. Una di queste racconta di aver confidato a padre Aldo le sue pene e la sua perdita di passione, del gusto di vivere con freschezza la sua coniugalità, la sua famiglia, la stessa vita del carisma che aveva scoperto in don Giussani. Ebbene costui si è sentito dire da padre Aldo: “Ma guarda che è capitato anche a me!”. Chi conosce la storia di padre Aldo sa le pene che ha dovuto soffrire e che non ha ancora superato perché è un depresso permanente. La depressione era diventata una infermità pesantissima che aveva tentato di minare anche le radici del suo sacerdozio. Per tanto tempo aveva continuato a guardarsi, a porre un giudizio, una considerazione partendo dai propri limiti, dalle proprie fragilità, dalle proprie incongruenze. Poi incontrando don Giussani, si è sentito dire: ”Hai mai provato a guardarti come ti guarda Dio, col giudizio di Dio non con l’occhio tuo?” Dopo questo incontro padre Aldo ha dato una virata alla sua esistenza.

Occorre però fare un passo che è decisivo riprendendo la lezione che Carron ci ha messo fra le mani. La vita con le sue distrazione, le giustificazioni, il lasciar perdere, il rimandare, può far dimenticare lo sguardo dell’inizio; può indurci a non dare seguito a quello sguardo. Allora ci si deve porre un’altra domanda:”Di quello sguardo oggi che cosa è rimasto vivo?”. La questione è questa, perché se non la poniamo in questi termini corriamo il pericolo di diventare dei nostalgici, ma quando uno fa il nostalgico, non afferra più il presente. La questione è invece l’oggi, è il presente: cosa vuol dire per noi oggi imparare lo sguardo di Dio su di noi, sugli altri, sulla realtà, su tutto?

La risposta ce l’ho già dentro, perché sentirsi guardati vuol dire percepire, riconoscere attorno a me la presenza di Qualcuno che mi ama, che mi accompagna. Sono aspetti potenti questi, aspetti fecondi che danno spessore, danno uno scheletro, danno muscolatura alla vita.

 

GABRIELLA (Gallarate): Mentre parlava don Giancarlo io avvertivo che sentire questo sguardo, per quanto mi riguarda, significa innanzitutto aver fiducia. Alla morte di mio figlio Marco mi sono fidata, mi sono buttata nelle braccia del Padre. Mi sono detta che, se questa cosa è accaduta, ci sarà un perché. Forse non ho neanche formulato questo pensiero all’inizio, ma credo veramente, nei primi giorni e nei primi mesi dalla scomparsa di Marco, di essere stati, io e mio marito, guidati dallo forza dello Spirito senza saperlo. Abbiamo avuto tanta fiducia, ci siamo proprio buttati fra le braccia del Padre. Credo che amore sia anche avere fiducia, fidarsi: quando tu ami, ti fidi e ti abbandoni e questo è frutto della Grazia. Se Dio è amore, anche la vita è amore; allora noi dobbiamo amare la vita. Anche se in noi c’è il grande dolore per la morte di un figlio, dobbiamo avere la forza per continuare a gioire e a vivere con serenità; forse gioia è una parola troppo grossa, dobbiamo in ogni caso vivere con serenità gli anni che ci restano. Come dice la preghiera di don Giussani, dobbiamo chiedere ai nostri figli che sono nelle braccia del Padre, di aiutaci a compiere il nostro compito. Naturalmente, rispetto a prima, cambiano gli obiettivi, il senso della vita cambia: adesso io gioisco quando riesco a rendere felice qualcun altro, se riesco ad avvertire che le persone con le quali interagisco stanno meglio con me. Vivendo assieme a voi, questa esperienza mi fa capire ancora di più che attraverso il dolore innanzitutto sono cambiata come persona: ho imparato a voler bene, ad amare, ad accettare e soprattutto a capire che c’è Qualcuno più grande di me che mi vuole bene nonostante quello che io sono. Per ciascuno di noi arriva il momento che ti cambia la vita. Per me è arrivato nel momento in cui ho perso mio figlio. Ci sono momenti particolari della vita in cui capisci di essere amato in un certo modo, malgrado il dolore che ti fa soffrire.

 

GIORGIO M. (Varese): Ho due constatazioni da fare. La prima ricalca quanto è stato fin qui detto. L’incontro con Gesù non può essere quello del Gesù uomo e dell’ambiente in cui è vissuto duemila anni fa. Oggi lo si incontra fisicamente tramite i suoi attuali discepoli, come lo è stato per padre Aldo e per alcuni di noi don Giussani. Mi ricordo che quando è morta mia figlia Lidia, don Giussani è stato di fatto l’unico prete che è entrato in casa nostra e si è preso carico del nostro dolore. Quando lo abbiamo portato nella cameretta di Lidia, mentre io continuavo a porre domande, lui mi abbracciava e mi baciava, dicendomi che il dolore si sarebbe rimarginato solo in Cielo, che saremmo tutti risorti, ma che bisogna dare tempo alla purificazione. Il dolore per la perdita di un figlio ha i suoi tempi di decantazione per poi scoprire che c’è un giorno in cui come padre Aldo, sia pure per altri motivi dopo trent’anni (ci ha impiegato trent’anni!), hai un incontro che ti cambia la prospettiva di vita. Anche noi abbiamo un compito, a cui fa cenno la nostra preghiera, e questo compito per “Famiglie in cammino” è dare un senso autentico al dolore che è in noi dando una mano a chi come noi soffre per la perdita di un figlio, perché il nostro e il suo dolore non siano fine a se stessi ma si aprano alla speranza che solo Cristo può dare. La seconda cosa che voglio dire, importante e bella, è che siamo diventati nonni di Anna Lidia. La bambina è nata un mese fa, sta bene. Tutto è bello!

 

RAIMONDA (Milano): Posso aggiungere una cosa a quanto don Giussani ci ha dato. E’ stata la prima persona da cui ho sentito parlare di un Mistero buono, che trova espressione nella Sacra Scrittura, alla cui scoperta tanti anni di studi non mi avevano portato. E con il Mistero buono mi ha aiutata a scoprire nel Vangelo la figura di Cristo, di Colui che ci ha promesso che sarà con noi sino alla fine dei tempi. Mi ha portata ad avere fiducia nel Padre, una fiducia vissuta e non solo teoricamente conosciuta, quale invece avevo fino allora provata in ambienti ecclesiastici. Si tratta di una fiducia tutta diversa!

 

FLORA (Usmate): Quando è morto mio figlio Christian sentivo un desiderio di cambiare, di trovare qualcosa di più grande, perché continuando a vivere nello stesso modo di prima non sarebbe stato più possibile. Sentivo l’esigenza di trovare uno sguardo nuovo, sguardi nuovi, che mi aiutassero a dare un senso autentico alla vita. Tornando all’esperienza di ieri sera, di cui mio marito Natale ha accennato all’inizio di questo incontro, mi sono invece accorta di aver davanti delle persone che questo desiderio non l’avevano, perché erano, per usare un’espressione di don Giancarlo, col cuore di pietra. Probabilmente hanno molto a livello materiale, amicizie di un certo tipo, però non hanno quel desiderio di cambiare, di volere qualcosa di più per la loro vita e questo li blocca. L’esperienza mia, di Natale e di quanti hanno oggi testimoniato ci fa capire che il dolore ci ha fortificati nella speranza. Ai nostri amici ho cercato di comunicare questa nostra speranza, ma ci hanno risposto che l’importante è vivere alla giornata. Non è proprio così, ho replicato a loro, con il tempo avrete un’altra risposta!

 

BRUNA (Milano): Voi avete gettato il seme e noi non sappiamo se darà, in futuro, frutti. Lasciamo fare al buon Dio!

 

ROBERTO: Uno si chiede: io che ho perso il figlio, perché mi devo confrontare con Gesù Cristo che è vissuto duemila anni fa? Quale è il collegamento? Può darsi che queste persone dal cuore di pietra, da un lato nascondano un dolore, dall’altro non hanno saputo o potuto tirare fuori nulla di buono dalla scomparsa del figlio. Quando è mancato Simone, mi dicevo: perché io, perché lui? Sono convinto che non si è scelti e che di fronte alla sofferenza c’è chi ce la fa e chi no. Sicuramente si è più fortunati se si crede in Dio; io dico sempre che l’importante, di fronte a questa tragedia, è la capacità di estrapolare la possibilità migliore per renderla meno dolorosa. Chiaramente, da persona esterna, credo che non sia facile accettare la morte di un figlio; è molto più facile chiudersi in sé stessi.

 

DON GIANCARLO: Mentre parecchi negli ultimi interventi offrivano dei contributi, a me è venuto in mente di chiudere questo incontro partendo da questa annotazione. Ci sono persone che (non dò un giudizio morale, parto da una constatazione che rileva dati) sviliscono l’umano perché prendono le distanze da esso. C’è una forma di svilimento di sé prima ancora che delle cose che si possono continuare a fare, che si chiama scetticismo e nella traduzione peggiorativa nichilismo. Ci sono persone che ormai si lasciano perdere, si lasciano andare, si aggrappano all’effimero perché sono scettici: hanno teorizzato o hanno orecchiato, accettandola, questa concezione del vivere. Non ne vale la pena, perché non c’è niente di universalmente vero che valga la pena guardare, seguire, La posizione scettica è tipica di chi crede a tutto e a niente. Crede a tutto, si aggrappa a tutto senza credere in niente! Altri, invece, vivono condizioni esistenziali molto più belle, molto più propositive, molto più illuminanti che danno speranza perché si sono imbattute nell’Uomo di duemila anni fa, incontrando, nel presente della loro vita di oggi, persone che hanno trasmesso Lui, che hanno avuto la capacità di far trasparire attraverso la loro umanità l’umanità del Mistero buono che è diventato carne, Uno di noi. Uno che ha dato la vita per noi e ci raccomanda di non perderci d’animo, di non scoraggiarsi , di non aver paura di niente e di nessuno, perché Io sono qui con voi e Io sono il Vincente. Imparate da me, state attaccati a me; vedrete e capirete.

E con Lui vi sono uomini che in tutti i secoli di questo bi- millennio hanno parlato “alla Giovanni” in forme diverse: quello che i miei occhi hanno visto, quello che le mie mani hanno toccato, quello su cui il mio cuore si è mosso e commosso…, io lo comunico a te, perché anche tu abbia a diventare partecipe di uno sguardo sulla vita, di un cuore con cui vivere. Uno sguardo e un cuore che ho ricevuto e scoperto, perché la mia gioia sia travasata in altri e attraverso di loro ad altri ancora fino alla fine del mondo. Così oggi ci parla Gesù.

Dall’altra parte vi sono uomini persi, smarriti, impietriti. Sul perché bisogna analizzare la casistica dei singoli, ma in ogni caso credo che sono diventati scettici perché si sono svuotati del legame che si chiama senso religioso, del legame col Mistero, precipitando nel baratro del niente, del nichilismo. Per tutti però c’è un dato di fatto: l’Uomo di duemila anni fa si è fatto uno di noi, ci ha dato una testimonianza di umanità unica; nessuno dopo di Lui è arrivato alla sua soglia. Lui ha vissuto e ha parlato con la coscienza di essere la risposta ai perché, alle contraddizioni, al bisogno dell’uomo e ci ha dato alcune cose che la storia documenta vera: senza di me non potete fare nulla di ciò che vale; imparate da Me perché sono mite e umile; Io sono la via, la strada che porta alla vita e alla verità.

Questa coscienza, che ha mosso Lui, è il dono che può sorprendere il cuore dell’uomo, l’intelligenza dell’uomo, l’affettività dell’uomo, attraverso il miracolo di certi incontri. A noi è stata data questa grazia: c’è chi, dentro una corrispondenza forte, continua seppur con oscillazioni, con tentennamenti, con alti e bassi; altri invece l’hanno persa, l’hanno bistrattata nella loro libertà, hanno giocato male in perdita sulla roulette della vita, hanno preferito campi illusori da coltivare. Noi oggi, e qui arrivo alla conclusione, siamo tra quelle persone a cui è stata data la possibilità di ripensare a sé, anche ai drammi inesauribili e irrisolvibili nel corso dell’esistenza, perché poi ad altri attraverso di noi sia dato riaccendere un lumicino di speranza, di certezza che poi potrebbe potenziarsi come luminosità e diventare luce sfolgorante, convincimento forte. Ma qual è la strada, perché il cuore non torni ad essere di pietra, perché il desiderio della pienezza di sé non cali, perché l’appiattimento non avveleni il virgulto, il rigoglio di una vita nata, fiorita, sviluppatasi? La risposta di Carron, e prima di lui di Giussani, e prima di Giussani di milioni di Santi, perché tutti hanno attinto a quell’Uomo di duemila anni fa, è che è Lui, questo Uomo, il punto sorgivo di tutto, per sempre e su tutto. Ci porta a fare l’incontro con lo sguardo di Dio sulla tua vita, uno sguardo che ti conforta, ti fa sentire amato, accompagnato, condiviso e che ha introdotto nel tuo io la presenza di un Tu che ha trasformato il tuo cammino in una relazione in crescendo.

Sta’ sotto le ali di questo sguardo, non perderlo di vista; hai bisogno di un luogo dove c’è una compagnia di persone che portano in sé la consapevolezza e la gioia di questo incontro che ha innescato in loro il legame di fede che ti fa fidare, ti fa consegnare, sempre, anche quando non capisci, anche quando ti costa, anche quando c’è il conflitto interiore. Dai fiducia al segno di quello sguardo, a quelle persone che, nonostante tutto e proprio malgrado tutto, continuano perché il contenuto della loro speranza non è nelle circostanze dei fatti particolari ma in quello sguardo, in quella presenza che risale a Gesù.

Chi è detentore, custode e testimone di questo sguardo, porta con sé il carisma, la grazia. Il carisma di Gesù continua nel carisma dei discepoli. E’ un carisma che oggi possiamo incontrare in Famiglie in Cammino, segno di questo sguardo, tanto è vero che quando ci incontriamo normalmente si va a casa arricchiti, rincuorati, fortificati. Questo è il test inequivocabile che aleggia in mezzo a noi: non la leadership di qualcuno, ma la Presenza che guarda il cuore e prende il cuore rinnovandolo nel desiderio di pienezza e di felicità.

Ma c’è un nota bene finale. Questo sguardo può diventare acquisito e non più scoperto, non più sorprendente. Quando uno sguardo è acquisito, allora si appartiene al luogo; si appartiene alla compagine da abitudinari, cioè stancamente, più per dovere moralistico che per freschezza e bisogno del cuore. La domanda di oggi è quindi questa: siamo contenti di trovarci? Quando la risposta è sì con sicurezza, vi circola buon sangue; se la risposta è un tentennamento con la constatazione che invece sono subentrate altre cose, che sono qui per dovere, perché dovevo accompagnare mia moglie o mio marito, vuol dire che incomincia un processo di inaridimento che porta alla pietrificazione. Per impedire che lo sguardo sia qualcosa di acquisito, di scontato e di formale, occorre avere invece l’apertura di Zaccheo, che un istante prima della chiamata di Gesù è stato investito, lui timoroso, dalla Grazia che gli ha dato occhi e cuore così profondi da vedere in quell’Uomo e nell’invito di quell’Uomo la risposta di cui aveva bisogno. E si è fidato. <-->

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