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Incontro del 12/12/2010

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MILANO, 12 DICEMBRE 2010

 

 

 

LA CRISTIANA TESTIMONIANZA DI CARLO CASTAGNA

Devo riconoscere l’abbondanza di misericordia che quella sera il Padre buono mi ha riversato, la stessa Grazia di trovare nella semplicità il sentimento per perdonare le persone che hanno ucciso i miei cari.

 

DON GIANCARLO: Chi è stato fedele in questi anni all’appuntamento prenatalizio ricorda che abbiamo sempre avuto la gioia di avere presenze estranee a quella condizione esistenziale che vi accomuna. Quest’anno invece abbiamo la grazia di comprendere che il caso non esiste, esiste solo nella mente degli “illuminati” dal razionalismo, mentre nel cuore di chi è illuminato dalla luce dello Spirito c’è un disegno guidato dalla Grazia, una parola che indica una possibilità di bene, sempre. Abbiamo la grazia di avere qui con noi uno di voi, provato in quel contesto che storicamente, anche per la eco multimediale che ha avuto, ha martellato per settimane e mesi la comunicazione dei fatti avvenuti. Lui ha fatto un suo cammino sempre dentro la comunità, pertanto ritengo che sia molto stimolante e portatore di un contributo: quello che oggi avremo modo di ascoltare per misurarci non sugli episodi, ma sull’affiorare di una sensibilità e quindi di uno sguardo che razionalmente ed esistenzialmente Carlo ha imparato come noi, come ciascuno di voi in contesti diversi ha avuto modo in questi anni di imparare. Io comincerei con il nostro canto che è anche una preghiera: Pon tus manos.

 

NATALE (Usmate): Prima di dare inizio al nostro incontro, direi di recitare la nostra preghiera in modo da poterci affidare al Signore per quello che oggi ci viene dato: la presenza di Carlo e quella di tutti voi, che manifesta un grande segno di fedeltà e di una fede ritrovata.

 

CARLO: E’ veramente incantevole don Giancarlo! Non so se l’aggettivo è appropriato, ma mi sembra veramente incantevole la vostra amicizia; inoltre vedo che fra voi vi è una condivisione che, come dicevo a don Giancarlo a pranzo, faccio fatica a condividere.

Io, da buon singol, devo trovare i miei spazi e li ritrovo per fortuna nella preghiera, nella casa del Padre e nella realtà dei Sacramenti; mi piacerebbe anche poter condividere una esperienza di gruppo, però da singol è un po’ difficile. Infatti a Erba, dove abito, c’è un gruppo che si trova, ma sono tutte coppie e le coppie possono affrontare il loro dolore in maniera diversa. Il singol le affronta con le sue forze, che non sempre gli bastano. Anche se le forze vengono messe in comunione, il singol rimane singol e ha bisogno della Sua forza, con la “esse” maiuscola, quella “esse” che in questi quattro anni mi ha dato sempre un sostegno e una grande serenità, una grande gioia, per usare proprio il termine della Messa di questa mattina.

Una grande gioia che ricorda l’omelia della festività di Santo Stefano di quell’anno, il 2006, - erano trascorsi quindici giorni dal tragico fatto che conoscete - quando don Giovanni, il nostro Sacerdote anche lui incantevole (è della classe 1927), ebbe a dire: “Il cristiano non può essere triste, il cristiano deve soffrire, ma la sofferenza del cristiano, se vissuta con fede, cristianamente, può portare alla gioia”. Ecco, io quella espressione facevo fatica a comprenderla!

All’indomani, subito, alla Messa delle sette e mezza, ha cercato di rispiegarmela; capivo che erano parole vere, parole fondate, però ho dovuto lasciar passare un po’ di tempo.

Ebbene io vivo con la sofferenza di allora, perché, se la mia sofferenza era a quota cento, ora, avendo amato cento, non può essere diversamente; però, in questo cento di sofferenza ho trovato non novantanove ma cento di gioia, di gioia per aver avuto al fianco delle persone che il Padre buono mi ha messo accanto. Ho trovato cento per aver avuto il dono di camminare con loro, di aver avuto da loro quel sostegno e quel supporto che poi, al momento del bisogno, si è espresso e io dico, per fortuna! Ebbene la mia storia la conoscete: non voglio assolutamente toccarla se non per qualche tratto, per qualche piccolo passaggio.

Quella sera sono venuto a conoscere il dramma, la tragedia dalle parole di un giovane carabiniere. Con certezza i verbali del gruppo dei Carabinieri parlano di morte per “co-murienza”; vuol dire che la brutalità è stata tale, tanta e grave che in pochissimi minuti, nell’arco di due-tre minuti, tutto si è compiuto; di conseguenza non è stato possibile determinare una classifica temporale: la morte è stata istantanea, in contemporanea, alle venti e zero cinque. Ebbene, io sono giunto nella corte alle venti e quindici

Incontro Ferruccio, il Comandante dei vigili del fuoco, un amico di famiglia, al quale chiedo cosa sia successo. Mi risponde che la casa di Raffaella, mia figlia, è bruciata. Alla mia richiesta di andare a vedere, mi dice che non era possibile in quanto pericolante. Un secondo dopo è arrivato il Comandante dei Carabinieri. Mi dice: “Signor Carlo, suo genero …“; mi chiede di tutto e di più. Alla mia richiesta su quale fosse il motivo di tutte quelle domande, constato che non ha più parole. Prende allora la parola un giovane carabiniere in borghese; dice che vi sono quattro corpi sgozzati di sopra. Questa è la notizia che mi trovo ad affrontare alle ventidue e diciotto.

Ecco, io capisco che una notizia di questo tipo avrebbe dovuto farmi piegare le ginocchia, mettermi in condizioni di non sopportarla. Invece comprendo che qualcosa sta avvenendo, capisco che sto reagendo in un modo inspiegabile. Le mie dita si mettono a contare come se quel numero quattro non tornasse: Paola, Raffaella, Jusef… “Scusate - chiedo - chi è il quarto?”. Non mi dicono chi è il quarto, ma mi rispondono che vi è un quinto in condizioni gravissime. Scendo nella corte dove vi sono almeno un centinaio di persone; tutti hanno un giubbino tra il nero e il grigio scuro, tranne uno che ce l’ha di un colore chiaro. Vi è solo uno che ha un maglioncino color salmone, e questo maglioncino appartiene al signor Olindo, il quale, quella sera, lo vedo nella corte con le mani in tasca. I suoi occhi sembrano volermi dire: “Signor Carlo, coraggio, proprio a Lei doveva capitare una simile cosa!”. Trovo nei suoi occhi un attimo di sostegno, un attimo di conforto e poi capisco che devo dare la notizia ai miei figli i quali mi hanno visto partire con la certezza che avrei trovato la mamma e Raffaella. E con la stessa brutalità con la quale ho ricevuto la notizia, io la consegno. I miei figli mi raggiungono rapidamente e insieme rientriamo a casa. Ho il sostegno degli amici, dei sacerdoti, del sindaco, dei notabili, ma soprattutto quello dei parrocchiani più vicini; alle tre del mattino ricordo loro: “Consentitemi, questa mattina per me sarà una mattina diversa, ma per voi sarà ancora una mattina di lavoro. Dovete assolutamente rientrare”. E così loro rientrano. Mi porto poi in camera e lì apprendo il significato della solitudine, dell’essere soli per aver perso gli affetti più intimi e più cari. Perché queste tre persone erano veramente stupende. Parliamo del piccolino; il piccolino era fonte di un amore che Raffaella aveva voluto a tutti i costi affrontare. Sapeva che sarebbe stata molto dura: la sua scelta è stata una scelta di amore, di amore nel vero senso della parola! Voleva aiutare una persona, colui che ha sposato, che era sicuramente nelle condizioni di essere proprio aiutata.

Raffaella si è data da fare; purtroppo alle spalle di suo marito ci sono due fratelli difficili e questo non le ha permesso di arrivare al traguardo che lei si era prefissato.

Come famiglia, quando abbiamo conosciuto la situazione di colui che diventerà mio genero, non l’abbiamo avallata, però un genitore, una madre soprattutto, non può non avallare. In un primo momento non avalla ma poi deve capire, deve ricordarsi che la figlia è in condizione di bisogno. Il padre, a sua volta, magari con più razionalità seguendo di meno la legge del cuore, deve riconoscere che non puoi lasciare la figlia in balia di una persona che ha sicuramente giocato un brutto scherzo a tua figlia. Raffaella è una ragazza stupenda che nel suo percorso di vita, nella sua professione, ha scelto i bisognosi, ha scelto i diversi, i diversamente abili. Ebbene questo ci ha riempito di gioia sin dall’inizio, anche se perdevo una collaboratrice, ma questo non era il nostro intendimento; noi volevamo che Raffaella fosse libera di scegliere e la sua scelta è stata precisa e determinata: ”Papà - mi diceva - mi sento portata a questo tipo di impegno sociale che è un’attività dove si comincia il lunedì e si finisce il sabato.”

A sua volta mia moglie Paola è veramente una persona incredibile, una mamma come tutte le mamme, una sposa come tutte le spose; ha un difetto: è illuminata molto dalla fede. Io l’ho chiamato difetto, chiedo scusa: non è un difetto. Era sostenuta dalla fede e io credo di averle sempre dato soddisfazione da questo punto di vista, perché la sua formazione corrisponde alla mia formazione. La nostra unione è stata favorita da un sacerdote che, nel periodo del fidanzamento, rendendosi conto dei mie tentennamenti ad avvicinare questa ragazza, mi ha esortato a farlo: “Carlo, guarda - mi diceva - che le rose vanno coltivate, ma vanno anche colte, altrimenti tu le coltivi e gli altri le colgono”. Ebbene io l’ho ascoltato e così ci siamo fidanzati.

I sacerdoti, nel caso mio e di Paola, hanno sempre giocato un ruolo determinante; li ho poi definiti “testimoni importanti” nella mia vita e in quella di Paola. Insieme ai sacerdoti, la parrocchia, l’oratorio, il momento di preghiera, la comunità parrocchiale, il consiglio parrocchiale e poi una esperienza di catechesi che per sei anni ha dato a Paola e a me la possibilità di conoscere ed apprezzare le lodi mattutine, tanto è vero che le avevamo fatte diventare nostre. Eravamo nel 1979 quando abbiamo iniziato questa esperienza e da una ventina di anni a questa parte recitavamo tutte le mattine le lodi prima di iniziare la nostra vita lavorativa. Ebbene, la mattina del 4 dicembre, una settimana prima che succedesse la tragedia, mentre stavamo pregando con le lodi del giorno, Paola ha voluto tracciare in matita due tracce, due segni a fianco del salmo 83, nel punto in cui si dice: “Beato chi abita la tua casa sempre accanto alle tue lodi, beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio”. L’ho voluto successivamente confrontare e verificare con mamma Lidia, la mamma di Paola che nel 2006 aveva 84 anni: una donna veramente incantevole, anche lei con la vita basata sulla fede, sulla concretezza, con la sua casa costruita sulla roccia. Il lungo abbraccio che ho avuto con lei parla più di mille parole; ricordo che quando siamo riusciti a staccarci mi ha detto: “Carlo, dobbiamo farci coraggio, dobbiamo chiedere al Signore l’aiuto per sdraiarci anche noi sulla croce!”. A mia volta le ho così risposto: “Mamma, sai che sulla croce io e Paola abbiamo letto tante e tante volte un’espressione bellissima: se mi accogli, ti sorreggo; se mi rifiuti, io ti schiaccio. E’ la croce che parla.” Quella sera però non mi è venuta in mente questa frase: sarei un bugiardo se vi dicessi che mi si è parata davanti. Però sicuramente era entrata nel mio cuore, nel mio profondo e sicuramente mi ha aiutato a trovare la forza di accoglierla. “Se mi accogli ti sorreggo… Se mi rifiuti, il mio stesso peso ti schiaccia …”: la mia scelta è stata una scelta quasi senza ragionamenti, senza pormi delle domande del tipo: ma che cosa faccio adesso, mi metto a imprecare? No, è stato un sostegno silenzioso, certamente aiutato da Paola. Devo riconoscere l’abbondanza di misericordia che quella sera il Padre buono mi ha riversato, la stessa Grazia di trovare nella semplicità il sentimento per perdonare queste persone, che hanno ucciso i miei cari e di cui non conoscevo ancora i volti. Non avevamo il minimo indizio. L’unico timore che potessimo avere è che mia figlia, mio nipote, mia moglie fossero stati uccisi da un gruppo di persone che avevano voluto vendicarsi di mio genero. Sapevo che accogliere la croce significava anche ricordarsi di assolutamente vivere gli insegnamenti evangelici: il “Settanta volte sette” è la misura del perdono indicata al’apostolo Pietro; significa amare anche il proprio nemico. Quindi erano quegli aiuti, quegli insegnamenti, che nel corso degli anni erano stati fatti nostri magari non sempre accogliendoli con quella generosità, con quella disponibilità, con quella gioia con cui avremmo dovuto accoglierli tutte le volte che venivano proposti in incontri, in momenti di preghiera. Sostanzialmente vivevamo una fede semplice, una fede fondata sulla certezza che Lui ci avrebbe, in qualsiasi momento, aiutati. Questa esperienza l’avevamo già vissuta quando nostro figlio, a quattro anni, sembrava che dovesse incontrare un problema piuttosto serio: si parlava di tumore, un anno dopo che Paola era diventata mamma di Raffaella. La preghiera, la fede ci hanno sempre sostenuti, ci hanno sempre dato una grande mano a trovare la forza di abbandonarci al Padre buono.

Ecco, io credo che quella sera, tutto mi sia passato nella mente ma non il desiderio di vendetta, la voglia di odiare, la voglia di possedere rancore. Tanto è vero che la mattina dopo a mamma Lidia ho detto:”Io sono certo che le prime vittime non sono stati i nostri cari, ma i loro uccisori, coloro che hanno commesso il delitto. Sono certo che sono stati aiutati dal principe delle tenebre, quello che dovremmo chiamarlo per nome: il demonio, satana. Non si può compiere quanto è stato compiuto se non hai un sostegno di tipo diabolico; quindi per me queste persone sono le prime vittime.” Quando poi all’otto di gennaio abbiamo conosciuto anche i nomi, la nostra reazione non è mutata, il mio senso di perdono non è stato assolutamente intaccato. Questo sentimento che Lui, il Padre Buono, mi ha aiutato a trovare, è stato confermato da mamma Lidia: “Carlo – mi ha detto -, come potremmo recitare il Padre Nostro, se non trovassimo la strada del perdono?”.

Io riconosco che tutto quanto mi è successo rientra in un disegno che non ho assolutamente il diritto di giudicare. Signore, io so per certo che Tu lasci l’uomo libero, lasci l’uomo in grado di compiere il bene o il male, però so anche che nei confronti del peccatore non vuoi la sua morte, ma vuoi che si converta e che viva! Queste certezze quella sera mi hanno dato una grande forza: la forza di sopportare e di affrontare una vita che indubbiamente è cambiata tremendamente, però non è cambiata la gioia di sapere e di sentire al mio fianco questi miei cari, tant’è vero che uso solitamente l’espressione “vivo con loro la comunione dei Santi”. Don Giovanni poi me lo conferma quando dice: “Signor Carlo, con il battesimo diventiamo santi.”

Nell’arco della nostra vita la santità non l’avvertiamo; dobbiamo contestualmente ogni tanto ricorrere, come ricordava questa mattina don Giancarlo, al grande Sacramento della Riconciliazione e poi, io non saprei più ricominciare la giornata se non la iniziassi con la recita del Padre nostro e con la Santa Messa, in cui sono presente spiritualmente mia moglie Paola e i miei cari al mio fianco. Recito il Padre nostro con queste persone carissime e meravigliose. La Messa del mattino mi aiuta ad affrontare la giornata che è sempre molto carica di impegni e di problemi, ma il cristiano non deve assolutamente pensare che gli impegni del lavoro meritino più di tanto. Certo, il lavoro deve essere onorato, però dopo ognuno è costretto, per fortuna dico io, a rivedere tutti i suoi atteggiamenti, i suoi comportamenti. Una vita deve essere spesa indipendentemente dal lavoro che ti condiziona; deve essere spesa pensando che Lui ce l'ha data. Dobbiamo spenderla un po' come i talenti della parabola evangelica che dobbiamo far fruttare. Nella mia vita, grazie a Paola, grazie a carissimi testimoni nella fede che mi hanno sempre aiutato, seguendo i loro insegnamenti e le loro indicazioni, mi trovo anche oggi sereno, in pace con me stesso. Vivo una vita in solitudine, ma con molta gioia interiore perché il mio cuore non è spezzato; è un cuore che cerco e cercherò di tenere saggio come dice il salmo: ”Insegnami a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”. Credo quindi che tutto quello che mi è successo mi ha dato sì una grande sofferenza, ma anche tanta gioia: la gioia di sapere che i miei cari mi hanno dato molto e mi stanno ancora dando molto!

 

NAZARENO (Gallarate):  Ringrazio vivamente Carlo Castagna. Ho avuto modo di conoscere in televisione quello che gli è successo; ma quest'oggi la sua testimonianza è qualcosa di più di una testimonianza, potrei chiamarla una “testimonianza di ferro”. Perdona le nostre colpe come noi perdoniamo ai nostri debitori, agli altri. Questa è una testimonianza di fede che ci richiama tutti all’essenziale. Alla scelta cristiana del perdono si accompagna la certezza di non aver  perso i nostri cari, perché i nostri cari non si perdono, sono approdati ad una vita migliore. Dobbiamo metterci bene in testa, specie coloro che fanno fatica a riconoscere queste cose, che la vita non è perduta: la vita è guadagnata quando passa vicino al Signore. Per questo voglio dire grazie a Carlo Castagna per la sua testimonianza, perché ci richiama al fatto che abbiamo tutti bisogno del Signore. Lui stesso è morto sulla Croce per noi e le nostre prove, le nostre sofferenze trovano valore quando sono unite a Lui.

 

MARIA (Arcore): Non la pensavo così, quando mi è successo di perdere una figlia per il cancro, nonostante  frequentassi la Chiesa.

L’aver conosciuto questo bellissimo gruppo di Famiglie in Cammino sotto la guida di don Giancarlo per me è fondamentale: la mia vita è cambiata tantissimo, anche perché don Giancarlo ci insegna tantissimo e senza di lui non so come farei ad andare avanti. Adesso la mia vita è cambiata; con la scomparsa di mio marito e di mia figlia sono anch’io singol, ma ho sempre i miei cari che invisibilmente ma realmente mi proteggono.

 

ROBERTO: Per me è difficile parlare: è la prima volta che vengo in mezzo a voi. Ringrazio il signor Carlo Castagna. E’ difficile cercare di perdonare, ma capisco che probabilmente, come lui dice, con la fede anche un evento così dirompente quale è il suo, non dico che diventi una gioia, può rafforzare e permettere di vivere per qualcosa. Io non vi nascondo che sto vivendo solo per mia moglie. Con la morte di mio figlio ci è capitato di dover cercare di comprendere un dolore così forte e di trasformarlo in fede, in una nuova esperienza di vita. Però ho un fondo di rabbia perché il Signore, o il destino o altro, comunque prende con sé sempre le persone più buone. La mia rabbia non ha un chiaro destinatario. Spero, non so se qui con voi, grazie a voi o grazie a tantissime persone che ci stanno seguendo, che la morte di mio figlio Simone, come quella di tutti i vostri figli, serva a qualcosa, non sia vana.

Reputo che la rabbia che ho in me prima o poi mi abbandonerà; sono sicuro che adesso ho bisogno che si calmi il dolore perché sicuramente mio figlio, i vostri figli come i cari del signor Castagna, non vogliono vederci vivere con questa sofferenza. Egoisticamente dico che sono qui per imparare a soffrire meno e a buttar fuori questo dolore per trasformarlo in amore e gioia. Non credo di poter gioire nelle prossime feste natalizie né di riuscire a festeggiarle con i miei parenti; il confronto tra la scomparsa di mio figlio e la presenza dei miei nipoti è troppo stridente. Oggi sono in difetto di fede: sono ottimista nello sperare che il tempo allenterà il dolore, anche se realisticamente penso che non passerà mai, ma lascio aperte tutte le porte. Noi abbiamo fatto diversi cammini, siamo andati in un monastero dove a un certo punto i monaci ci hanno detto: “Noi quello che potevamo fare lo abbiamo fatto, adesso sta a voi: vi siete incamminati su una strada, su un sentiero sul quale dovete essere voi a spingervi un po’ più in là.” Questo è probabilmente un secondo passo che stiamo affrontando. Ecco, io spero di tornare da voi, spero di capire se la mia fede, oggi al cinquanta per cento, crescerà. Il signor Castagna oggi mi ha dato una spinta di motivazione, perché secondo me lui è l’esempio vivente del miracolo della fede.

 

GABRIELLA (Gallarate): La tua testimonianza mi ha molto commosso. Devo dirti una cosa: che si muore è certo, ma ho notato che anche il signor Castagna parlando dei suoi cari li riteneva e li ritiene presenti: diceva Paola “é”, Raffaella “é”, non diceva “era”, e questo è quello che ci siamo sempre detto tutti. Quando ho perso mio figlio Marco, io ho sempre sostenuto che Marco c’era ed è vivo; l’ho sognato e ti auguro di poter sognare anche tuo figlio. Devo dire però che la cosa che ci ha sostenuto moltissimo è la preghiera: io e mio marito Gabriele abbiamo affidato Marco a Dio, lo abbiamo pregato di tenerlo con sé, abbiamo supplicato la Madonna, la nostra Mamma con la emme maiuscola, e ogni giorno abbiamo recitato il rosario. Credo che la Madonna ci sia stata e ci sia particolarmente vicina perché ha provato questo dolore prima di noi.

 

DON GIANCARLO: Mi rivolgo prima a Roberto: quella che tu definisci rabbia senza destinatario ne ha in realtà uno e ti dico la ragione. Noi fra una settimana circa rivivremo nei segni della liturgia e anche nel vivo di una partecipazione umana quindi razionale, libera, affettiva, quel grande Avvenimento che è la novità della storia: Colui che ha fatto tutto, il destino di tutto è diventato uomo, ha mandato il figlio che è l’uomo a cui guardare ed è un uomo che è carico delle cose più ignominiose e delle aspirazioni più sante. Ne ha dato questo giudizio il film di Mel Gibbson “La passione”, che ci ha impressionato tutti per la crudezza vera, perché fino a quel film noi la verità di Cristo la vedevamo edulcorata, addolcita, idealizzata. Ma la passione non è fine a sé stessa: Cristo, con la sua risurrezione, è la nostra speranza, la nostra certezza!

La testimonianza di Carlo, a differenza di altre, ha permesso di cogliere, fin dagli inizi, come la fede, e quindi il legame con Gesù attraverso la vicinanza di amici cristiani e di sacerdoti, gli abbia permesso di avere una diga di contenimento, un percorso di vita arricchito da tutti quei passaggi in cui personalmente non ho percepito srotolamenti verso la discarica delle condanne. E’ come se tutto avesse avuto una lettura, un giudizio ricco di luce. E' la luce della speranza. (…)<-->

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