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Incontro del 21 febbraio

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21 febbraio 2010

 

LA MORALITA’ COME TENSIONE A CRISTO

 

Morale è l'uomo che, nonostante le sue incoerenze, non cessa mai di guardare e di lasciarsi attrarre da Cristo, la verità incarnata.

 

Don Giancarlo:  Rifacendoci al testo di Lepori,”Fu invitato anche Gesù”, e in particolare al capitolo sull’accoglienza, emerge che, se si vuole capire cosa sia l'esperienza dell'accogliere e del sentirsi accolti, bisogna guardare al  modello, al paradigma della Trinità. Queste tre persone - Padre, Figlio e Spirito -  vivono il dono di loro stessi all'altro: questa è la comunione trinitaria. L'accoglienza reciproca è dono vicendevole, l'esito è l'unità.

Unico Dio, unica natura divina,  ma  irradiata da tre forme personali diverse: l'amore paterno è tutto, è misericordia; l'amore filiale è redentivo, recuperante, riconciliante; l'amore dello Spirito Santo  è vivificante, che sorprende e arricchisce soprattutto là  dove i nostri cuori  si sono induriti, le menti diventate ottuse. Ma c'è un altro punto che ci induce a capire che cosa è l'accoglienza: la Trinità contemplata non solo nella sua intimità, ma che si apre e diventa per noi salvezza, dispensatrice di amore che salva, che  ricostituisce il nostro Io frammentato, ferito, claudicante, il nostro Io relativista, disperato, nichilista riportandolo a Dio.

Arriviamo ora a noi, alla nostra vita. Nei nostri rapporti interpersonali - e li metto dentro tutti: coniugali, familiari, ecclesiali, sociali, professionali - la carità parte dal riconoscere che l'altro è un dono e dall'accoglierlo come immagine umanamente viva di Dio. E' il Dio vivente che viene verso di me. Sull'esempio dell’amore di Gesù e del Padre che è misericordia, noi siamo chiamati ad essere segni e strumenti dello stesso amore. Guardate che qui si aprono “buche” nelle quali incespichiamo, nelle quali cadiamo. Non possiamo professarci cattolici emarginando gli altri. Non è questione di moralismo: è questione di posizione esistenziale, di posizione culturale. E' per questo che  ho aperto con le pagine di Lepori sull'accoglienza, sullo sguardo di amore, sull'accettazione dell'altro, del diverso.

Ed ora raccontiamoci nei passi che il buon Dio ci permette di fare, anche nella fatica, nelle difficoltà che incontriamo, nelle domande, nei quesiti che si aprono perché la nostra amicizia, che dura nel tempo, possa aprire sempre nuove brecce che poi ci fanno guardare la realtà e l'universo intero come fossimo davanti a una finestra spalancata e non di fronte a piccoli oblò che ci impediscono di poter  leggere la realtà in modo completo, con tutte le sfaccettature con cui ci si presenta.

 

Nazareno (Tradate):  Ho incontrato un gruppo di mutuo aiuto, specifico per chi ha subito un lutto. Siamo  persone dal cuore dolente: condividiamo le nostre esperienze, le nostre emozioni, il nostro comune dolore per la perdita del nostro caro o semplicemente partecipiamo ascoltando gli altri e le loro testimonianze. Chiunque può venire al gruppo: chiunque abbia subito la perdita di una persona può partecipare. E' un gruppo laico, aperto a tutti: cristiani, mussulmani e altro.

 

Don Giancarlo: E’ giusto il rispetto per questa e altre iniziative; però bisogna, secondo me, avere un uso della ragione illuminata dalla fede, che sia lungimirante. Cosa cambia nella condizione esistenziale tra l'avere nel cuore la certezza della vita eterna e quindi della comunione dei santi con i nostri cari? E’ una domanda che faccio. Ciascuno percorra le sue strade: è bello che tu porti la sensibilità che nel nostro cammino di amicizia hai approfondito e che, quando incontri o scopri aspetti arricchenti e positivi,  li travasi anche in mezzo a noi. Questo è bello, perché vuol dire che la comunione cattolica è spalancata a tutti i segni, a tutte le presenze che ci sono sulla faccia della terra, vicine e lontane.

 

Un  genitore:  E’ una grazia che abbiamo potuto leggere il testo di Lepori, perché mi ha richiamato proprio alla ragione per cui dobbiamo vedere l’altro in modo diverso. Nella nostra tradizione cristiana c'è sempre stato il fatto di preoccuparci per l'altro, il cercare di essere aperti, accoglienti, a partire dal marito; ma qualche volta mi sfugge la ragione per cui mi devo atteggiare così. Confesso che è una meraviglia che sotto ai miei occhi siano apparse considerazioni che mi richiamano alla ragione fondamentale. Se noi siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio e Dio è Trinità, continua accoglienza, amore delle tre Persone nell’unica sostanza divina, il  nostro accoglierci a vicenda come esseri umani deve essere caratterizzato dall’amore di Dio. Di conseguenza devo essere più disponibile, più vera nel mio rapporto con gli altri. Se non mi riferisco a Dio, effettivamente il mio rapporto con gli altri diventa moralismo, diventa un buon comportamento da buona cittadina o da apparente cattolica. Questo richiamo continuo alla ragione di fondo, all’amore di Dio come Trinità, ci porta a considerare ciascuno come un dono datoci da Dio. Questo mi aiuta a rapportarmi agli altri, malgrado i miei e i loro difetti.

L'importante è che io chieda aiuto a Dio: se mi mette di fronte a delle persone, vuol dire che ha un suo piano anche per la mia salvezza, per cambiarmi, per migliorarmi.

 

Gabriella (Gallarate):  Quello che mi riprometto, e non sempre riesco a fare, è di essere coerente. Noi cattolici dobbiamo soprattutto diventare coerenti, domandandoci veramente cosa voglia dire essere cattolici, cosa portiamo con noi quando usciamo dalla chiesa dopo la Santa Messa. Si deve capire il nostro essere cattolici anche da come noi ci comportiamo e interagiamo.

Dobbiamo veramente riprometterci da cattolici di essere coerenti con ciò che diciamo di essere e che manifestiamo in tutto: per come viviamo, per il rispetto degli altri, per il buon cuore che abbiamo... E' impegnativo: non è facile essere veramente cristiani cattolici!

 

Don Giancarlo:  Gesù non ha mai chiesto la coerenza; la coerenza è impossibile all'uomo. Gesù ha chiesto ai discepoli la moralità, che è una cosa diversa. La moralità ha come caratterizzazione il cammino, la tensione al vero che è Lui, che si invoca, che si guarda, che si segue dandogli la libertà

di operare e di plasmarci secondo i suoi tempi, che sono sempre rispettosi dei nostri tempi di crescita e di maturazione, che sono sempre lunghi, perché la natura dell'uomo è una natura contrassegnata da due logiche, da due regole: la gradualità e la progressione. La moralità  come cammino è tensione verso la Presenza che mi compie. La moralità, intesa così, è cristiana: mette in conto sia le incoerenze, che si chiamano peccati, non giustificabili a priori ma consegnabili, tutte le volte che ci si accorge di averli commessi, alla misericordia dell'amore.

Tenete presente che lo stile di vita del cristiano è uno stile di vita del peccatore, non di  un santo, perché il santo nella concezione cristiana non è il coerente impeccabile. Il santo è l'uomo in cammino, ferito e che accumula ferite, ma è incontrato e sollevato dal buon samaritano: Cristo è venuto per i peccatori, è venuto per gli ingiusti, non per i coerenti. I “coerenti” sono stati sempre fatti fuori da Gesù: si chiamano farisei e scribi; quelli sono i fautori e i detentori falsi, perché hanno l'ipocrisia della impeccabilità che però esigono dagli altri e non da loro.

D’altro canto chi prova inquietudine di fronte ai problemi esistenziali – e lo dico anche per quei genitori che hanno un figlio che prova questa sensazione – vuol dire che non è precipitato nell'agnosticismo e nel piattume di un ateismo pratico; vuol dire che è in ricerca. Chi è inquieto passa attraverso stagioni esistenziali diverse. Una di queste è la stagione del radicalismo proiettato soprattutto come esigenza e pretesa sugli altri che si pongono in nome di una identità, in questo caso una identità cattolica. Si tratta del radicalismo ideologico, non ancora sofferto esistenzialmente. L’esperienza del vissuto comporta a sua volta la seconda stagione, che aiuta ad accorgerci di essere impari di fronte al desiderio di verità, di pienezza. Nonostante il rincrescimento, nonostante il dolore che si prova, ci si accorge di essere inadeguati; anzi, si arriva a fare l'esperienza della impotenza, della solitudine. Allora lì uno toglie la maschera e comincia a guardare gli altri fratelli uomini, soprattutto i più cari, i più vicini da cui si è ricevuto tanto, con uno sguardo di maggiore simpatia, di maggiore condiscendenza e nel tempo di riconoscenza, dove la parola riconoscenza ha dentro il termine “riconoscere” una conoscenza molto più profonda di quello che noi chiamiamo conoscere: il “riconoscere” arriva al cuore, al significato, alla radice ultima della realtà di sé e del valore dei rapporti. In genere questa esperienza la fanno i figli da sposati nei confronti dei loro papà e delle loro mamme. Quando i giovani arrivano a vivere la condizione coniugale di paternità e maternità, e quindi di famiglia con tutta la fatica che questo comporta, allora si fanno salti di qualità, perché sono salti nel vero. Prima erano sguardi di facciata, sguardi di teorizzazione ideologica. A quanti hanno un figlio che vive questa inquietudine, il suggerimento che do è quello di non entrare mai sul terreno della coerenza, ma sul terreno della moralità, perché la moralità è il tentativo di tradurre l'ideale nella vita. Morale è l'uomo che non cessa mai di guardare e di lasciarsi attrarre da Cristo, la verità incarnata, nonostante la sua distanza, nonostante la sua indegnità. Anzi, proprio perché lontano, proprio perché soffre di non bastare a sé stesso, di non farcela, vive il grido: “Signore, vieni in mio soccorso: affrettati, vieni in mio aiuto. Non tardare, abbi pietà di me!” E' il grido dei ciechi, degli zoppi, di Zaccheo, della samaritana, dell'assassino morente condannato a morte sul Calvario ecc. E' il grido dell'uomo. Questo della moralità, come tensione al vero, al giusto, al buono .., ci porta a ritenere che io sono cristiano non perché sono coerente, ma per grazia di Dio, che mi ha eletto. Io non  ho  meriti: gioisco di riconoscere questa preferenza elettiva che è stata data a me e non ne conosco la ragione. Ne gioisco perché è immeritata; so di doverla custodire, so di doverla sviluppare perché è uno dei talenti che il Padre Eterno ha messo tra le mie mani. Non so i tempi del passaggio graduale e progressivo alla santità, a quel miracolo che mi  fa parlare di miracolo. L'esperienza cristiana parla di grazia innanzitutto, su cui la libertà, la razionalità, l'affettività sono chiamati in causa, a offrire sostegni e contributi. E’ il Signore che salva; è Lui  la verità che libera!

 

Un genitore:  Penso che noi di Famiglie in Cammino ci siamo sempre dati come obiettivo, come meta quella di dare un senso alla morte dei nostri figli, perché era ed è un desiderio nato nel nostro cuore, un desiderio di non vedere la morte come la fine di tutto.

Attraverso il cammino che grazie a don Giancarlo stiamo facendo, siamo capaci di amare la vita e sono certo che solo chi ama la vita sa dare un senso alla morte: se i nostri figli non ci sono fisicamente, ma ci sono nel nostro cuore, la figura del genitore  è quella di essere forte e di essere con la sua fede d'esempio per gli altri figli, anche nei confronti di chi non crede.  Il cammino verso la speranza ce lo dà solo un cammino di fede. E’ un cammino di amicizia nella fede, che ci porta all’accoglienza del dolore, a sorridere malgrado la perdita di un figlio, con grande meraviglia di chi ci è vicino.

 

Gabriella (Gallarate):  E’ quanto ho constatato la scorsa estate. Un ragazzo di nome Davide, saputo che Marco, mio figlio, non c'era più, mi disse: “Ma come fai a sorridere ancora?”.

La mia risposta è stata quella di dire che mio figlio esisteva ancora  e che devo vivere anche per lui. Sono consapevole di essere in cammino; sono consapevole che anche la mia vita arriverà al termine. La morte di nostro figlio ci fa vedere tutto quanto ci circonda con più distacco. Mi sono così trovata  a dover far forza ad altre persone. C'è una fase del dolore, quello del primo momento, in cui ti butta a terra; non sai proprio come fare a rialzarti: ti senti come una macchina con le ruote per aria, con le gomme sgonfie; non si vede una luce, non si vede un traguardo davanti a noi, ci si pone molte domande. Quanti perché ci siamo chiesti tutti quanti, a cui mai nessuno è stato capace di dare una soddisfacente risposta.

Seguendo invece un cammino di fede, questo momento di abbattimento si trasforma in una resurrezione del dolore. Siamo allora noi in grado, attraverso il grande dolore che abbiamo provato e attraverso il fatto di amare Cristo, di apportare un aiuto agli altri, così come possiamo, così come siamo. Se è vero che siamo stati fatti ad immagine e somiglianza di Dio e che siamo  fatti per la felicità, allora uno si chiede: “Cosa è la felicità? E' questa la felicità? E' quella di accompagnare mio figlio al cimitero? Oppure la morte di mio figlio porta dentro di me a un cammino di fede, capace di darne un senso?”.

Io penso che sia più valida quest’ultima domanda, dato che abbiamo acquisito una sensibilità che prima non avevamo.

 

Raimonda (Milano):  All’'inizio della nostra preghiera, scritta da don Giussani, chiediamo al nostro figlio defunto, che è nelle braccia del Padre, di aiutaci a vivere con più verità  la nostra vita e il

 nostro compito. Anche noi abbiamo provato e proviamo quanto sta succedendo a Gabriella. A un certo punto abbiamo cercato un senso più profondo della vita e così le cose che prima erano importanti hanno assunto meno importanza. Dobbiamo vivere con più verità, perché Dio ha pensato ai nostri figli prima ancora che nascessero; noi li abbiamo educati, abbiamo trascorso del tempo con loro, abbiamo avuto con loro questo scambio magnifico che li ha accompagnati sino al momento della loro morte. Quando mio figlio è morto, aveva 16 anni (li avrebbe compiuti il giorno dopo). E' stata molto breve la sua vita: quante belle cose avrebbe potuto fare oltre a quegli anni?

Può sembrare strano, ma credendo nella comunione dei santi io penso che noi siamo come se fossimo tutti in un grande stadio, come a San Siro. Noi siamo quelli che dentro stanno giocando per

la nostra salvezza; ma sugli spalti, in numero grandissimo, ci sono tutti i nostri figli, tutto il mondo trionfante che fa il tifo per noi, perché dobbiamo riuscire a farcela.

 

 Antonietta (Busto Arsizio):  Michele, mio figlio, aveva una ragazza che non credeva in nulla. Non aveva fatto né Cresima né Comunione, ma noi accettavamo questo suo modo d'essere. Quando Michele è morto, la ragazza si è allontanata da noi per un po’. Dopo che si è sposata ha voluto riprendere i contatti con noi e ha voluto proprio farci partecipi della sua conversione. Dopo la morte di Michele è andata a cercare un sacerdote e ha voluto fare il cammino di inserimento nella Chiesa, trasmettendo tutto questo al suo nuovo compagno. Quando ha avuto il primo bambino, ha voluto che lo conoscessi; adesso aspetta il secondo e questa mattina è venuta a comunicarcelo. Tutta questa cosa a me fa venire la pelle d'oca perché, anche se noi inizialmente abbiamo molto sofferto, ora  in noi lei trova un punto di riferimento.

In questo periodo ho avuto riscontro di altre cose. Il cammino che noi stiamo facendo, da quando è mancato Michele è qualcosa di straordinario. Alcuni amici già lo sanno. Ho avuto per un periodo di tempo un forte conflitto con una collega di lavoro, ed è stato proprio un periodo molto difficile. Di conseguenza la direzione ci ha destinato ad incarichi diversi e l'ultimo giorno che ho lavorato con lei mi sono detta che avrei dovuto salutarla, non potevo andarmene senza un gesto di saluto. Prima di uscire ho voluto abbracciarla e quello che mi ha sconvolto è che anche lei mi ha abbracciata e salutata commossa, probabilmente sorpresa da quel gesto di riconciliazione.

Credo che questi siano proprio segni e frutti di conversione. Io avevo pregato lo Spirito Santo che mi aiutasse e questo segno è stata una liberazione anche per me, ma ho visto anche  da parte sua  la dimostrazione di quanto lo Spirito operi in noi. Volevo comunicare questa cosa, perché comunque ci sono le fioriture delle nostre disgrazie, dei nostri dolori.

 

Flora (Usmate): Eccome se ci sono le fioriture! Prima di accogliere gli altri dobbiamo saper accogliere noi stessi; ho pensato molto a questa cosa. Cosa vuol dire accogliere noi stessi? Dobbiamo riconoscere che già noi stessi siamo un dono di Dio, frutto della gratuità completa di Dio. E questo dobbiamo prima di tutto riconoscerlo ogni mattina quando ci svegliamo. E in questo riconoscimento mi può aiutare tanto il cammino di fede che io accetto e che è proprio qui, in “Famiglie in Cammino”, qui con don Giancarlo e la Chiesa stessa, la grande Chiesa che ci accoglie.

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