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Incontro mese di gennaio

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INCONTRO DEL  17 GENNAIO  2010

ACCOGLIERE LA VITA COME DONO

 

Don Giancarlo apre l’incontro evidenziando i tratti salienti,  le sottolineature del contenuto che l’abate Mauro Giuseppe Lepori svolge nel capitolo terzo “Accogliere la vita” del testo “Fu invitato anche Gesù”.

 

Don Giancarlo: Le tre puntualizzazioni che l’abate Lepori fa  in merito alla parola “accoglienza della vita”, pongono  in evidenza, in primo luogo,  il valore in sé della vita, indipendentemente dal fatto che sia ricevuta, accolta o  rifiutata, manipolata riduttivamente.

Quello che Lepori mette in evidenza è che la vita, ogni forma di vita,  quando compare è sempre donata.  Prima dell’accoglienza c’è il dono, e con la vita c’è il dono di una possibilità; dove questa è accolta, c’è e si sviluppa quella mentalità che oggi conosciamo come “cultura della vita”.

 

Dove invece non è riconosciuta, si diffonde la “cultura di morte”. Oggi – tra qualche settimana si celebrerà  la Giornata nazionale per la vita – siamo  chiamati a fare i “crociati della cultura della vita”. Sul fronte del riconoscimento che la vita è un dono, che viene prima della  sua comparsa e della sua accoglienza, Lepori evidenzia che tutti, dal primo all’ultimo, siamo esposti  alla dimenticanza, come quei crociati, che, partiti con le migliori intenzioni di liberare il Santo Sepolcro e di dare aiuto ai bisognosi, hanno poi tradito questi ideali.

 

La corruzione, la tentazione di manomettere, di offuscare e di seppellire sotto stratificazioni di cose spurie l’ideale, il valore è sempre  possibile ed è per questo che “c’è sempre bisogno di conversione”. Non per nulla Gesù ha cominciato la sua opera educativa come evangelizzatore annunciando e ribadendolo ad ogni piè sospinto la necessità di convertirsi e di credere al Vangelo, dove  questo binomio può essere letto dall’inizio o dalla fine.

 

Se lo leggiamo dalla fine, in primis c’è il credere e credere è il riconoscere che ciò che c’è ci è stato donato da chi lo ha pensato e creato; d’altro canto dove c’è  la fede,  c’è bisogno di purificazione continua. C’è sempre il pericolo di uno scadimento nel rapporto fra ciò che è dato e il soggetto affidatario che è chiamato a custodirlo o a farlo fruttificare. Questo si chiama peccato.

 

La vita ci sfida con i suoi contenuti, soprattutto quelli che riguardano la parola eterna, perché la vita che vediamo circolare in noi e tra di noi, pur con la sua precarietà, è contrassegnata dall’eterno, dal per sempre. La vita eterna si è manifestata in Gesù Cristo: “Io sono la resurrezione e la vita, chi si fida di me non morirà in eterno.” Certo, passa nel transito della morte biologica.

 

Seconda sottolineatura che fa l’abate Lepori:  la vita, per la connotazione esclusiva che ha di essere creata e donata da Dio,  per essere accolta e rispettata nella sua integralità ha bisogno di essere conosciuta nel livello della vita di Dio, nel livello trinitario. Cioè  nella modalità con cui il Padre, il Figlio e lo Spirito se la donano, la custodiscono in una fecondità permanente, in una espressione di gratuità perenne.

 

Le persone che hanno manifestato storicamente il cuore del mistero, quello che noi chiamiamo l’Io profondo di Dio, sono persone che eternamente si accolgono e si donano.

E’ un concetto questo sul quale la predicazione quasi mai insiste, perché la predicazione tendenzialmente è moraleggiante o eruditamente biblica e dottrinale.

 

Ma se il contenuto della fede non mantiene la profondità e l’altezza vertiginosa della Trinitarietà, il cristianesimo viene impoverito  già da come viene proposto. Nel testo l’abate Lepori si ferma sulla declinazione di due aspetti dell’accoglienza: quello dell’accoglienza di sé stessi come donati da Dio e quello dell’accoglienza dell’altro come possibilità per sé.

Qui  vengono presi in considerazione, anche esemplificate, alcune pagine evangeliche trattate da questo uomo di fede con tocchi acuti e anche commoventi quando, ad esempio, mette in risalto la scelta della vedova di Nain partendo dalla compassione di Gesù nei confronti del suo dolore per la morte del figlio, per poi arrivare a quel finale coinvolgente: “Egli lo diede a sua madre”.

 

L’accoglienza di sé come dono e l’accoglienza dell’altro nella sua diversità, che comunque è un dono,  chiede però come apertura del cuore e come condizione, non solo di partenza ma come regola permanente, la carità. Perché la carità è ciò che permette all’uomo di vivere tutto alla stregua di Dio secondo la misura, la sensibilità di  sguardo, di giudizio e di azione di Dio.

 

La carità è un’accoglienza di amore  senza limiti e l’abate la distingue dall’eroismo proprio commentando la Prima lettera ai Corinzi al capitolo XIII, dove nella prima parte san Paolo descrive espressioni di eroismo, ma poi sottolinea che tutto ciò che è eroico, e che potrebbe colpire ed entusiasmare, sprofonda nel nulla se non è supportato dalla carità.

 

Parlare le lingue degli uomini, avere il dono della profezia, essere scienziati di prim’ordine, fare miracoli, dar via tutte le ricchezze e addirittura donare la propria vita in salvataggio di altri, sono gesti eroici che non direbbero nulla, non cambierebbero nulla,  se non diventassero espressioni di carità, cioè dell’amore con cui il Padre,  il Figlio e lo Spirito Santo si donano, si  accolgono e si condividono in un  rapporto di comunione.

 

E’ questa la questione che possiamo mettere a tema oggi, sia come racconto di un vissuto  sia come domanda  sia come presentazione di difficoltà, di paure. Dobbiamo rifarci al disegno di  Gesù sulla storia dell’uomo sull’esempio di Maria: “Fate tutto quello che vi dirà”. Se ci sono difficoltà, le ascoltiamo nella misura in cui  siamo capaci, sia pure balbettando, di offrire punti luminosi, sicuri di speranza, saremo felici di darceli. 

 

Ci troviamo una volta al mese proprio per ridare speranze a chi può  appesantirsi per la fatica.

A una mamma, che ha un figlio con turbe psichiche e un marito gravemente infermo con cui da decenni esiste una sostanziale incomunicabilità, e che mi comunicava tutto il suo scontento, la sua insoddisfazione per questa mancanza di rapporti all’interno della sua famiglia, nel corso di una telefonata le facevo notare che non è in gioco il quanto si fa ma per chi lo si vive, alla luce di quale motivazione o di quali motivazioni, anticipandole con parole comprensibili da lei quello che ci siamo ricordati anche noi.

 

E lei, dopo avermi ascoltato, mi ha detto: “ Hai ragione! Mi chiedi di trasformare la mia pazienza e la continuità dei miei impegni da un livello di sforzo morale a un altro livello. Io ho bisogno di essere felice, perché il mio cuore vuole la felicità e così non ce l’ho”.

 

Va detto che bisogna incominciare a ricentrare e a rettificare il modo con cui questa mamma ha sempre vissuto. Occorre viverlo a un livello più profondo,  più liberante perché più vero!

 

Giuseppe  (Busto Arsizio): Vorrei partire da dove ci siamo lasciati l’ultima volta che ci siamo visti. Sono rimasto molto impressionato dalla testimonianza di quella coppia di medici che ha adottato bambini in Uganda, dove hanno svolto la loro attività professionale e di volontariato.

 

Sono pure rimasto molto impressionato vedendo in televisione il volto triste di una bambina haitiana che, a causa del terremoto, come tanti altri bambini non avrà più i suoi genitori naturali. Leggendo il testo di Lepori e in particolare il capitolo su  “Accogliere la vita” , sono stato colpito da questo brano: “ E questo può avvenire non solo quando il figlio arriva, ma in seguito, ad ogni tappa della sua crescita, al manifestarsi delle sue crisi di crescita e dei suoi problemi che, in un modo o nell’altro disturbano, fanno perdere tempo, energie, pace e letizia.

 

Quante volte i problemi dei figli o con i figli “rovinano”, per esempio,  il gusto che si ha nel proprio lavoro, i rapporti con gli amici e anche, e forse soprattutto, il rapporto con la moglie o col marito.”

Contrariamente alla bella testimonianza di quella coppia dei medici, vorrei ora parlare della morte morale dei giovani.

 

Si tratta di un grave problema che leggiamo sui giornali, che vediamo in televisione e che praticamente  è sotto gli di tutti.  Di fronte al disagio di questi giovani, giovani senza fede, dobbiamo cercare di dare un messaggio di speranza, dire a loro che è possibile risorgere a nuova vita. Mi domando  a chi spetta questo compito, se ai genitori o agli educatori, come ad esempio  agli insegnanti, a coloro che gestiscono gli oratori. Sopratutto questi educatori non si devono arrendere, ma parlare ai giovani con sincerità, col cuore in mano e magari spesso raccontare la propria storia sia nel male che nel bene.

 

Io sento dire, tante volte,  dalle maestre,  che la colpa è dei genitori; in ogni caso siamo noi adulti che dovremmo incanalare la voglia di fare e di vivere di questi ragazzi. L’altra volta leggevo una lettera di Paolo apostolo: diceva che c’è un progetto su di lui sin da quando era nel grembo di sua madre; quando si incontra con la grazia di Dio, questa diventa l’ago della libertà e diventa una luce che illumina il cammino.

 

Secondo me non manca l’amore per la vita  da parte dei nostri giovani, forse manca in noi la forza e la coerenza di vivere e di amare davvero loro e il loro mondo; cerchiamo quindi di educarli in modo che, sull’esempio di Paolo, diventino come  una luce capace di  illuminare la loro vita.

 

Termino con una mia esperienza che si ricollega con il tema dei nostri incontri: ”Ripartire da Cristo”. Nei giorni delle scorse festività natalizie eravamo in famiglia tutti  riuniti;  però avvertivo che c’era qualcosa che mancava: c’era un posto vuoto. Da un po’ di tempo sono in pensione, quindi ogni giorno vado al cimitero, dove recito una preghiera, anche la preghiera di  Famiglie in cammino. Ma spesso, quando esco dal cimitero, soprattutto in quei giorni di festa,  sono turbato e mi accorgo che a volte vivo al margine di me stesso a riguardo della fede. E quando ciò accade sono triste; sento allora la voglia e la necessità di rifugiarmi in chiesa.

 

Mi metto davanti all’altare e prego,  e nel  pregare incontro Dio: è nella preghiera che lo incontro e nell’incontrare Dio mi sembra di incontrare me stesso e quindi ritrovo quell’equilibrio, quella armonia di cui ho bisogno. Così, quando esco dalla  chiesa, non solo riparto da Dio ma  riparto con Dio.

 

Antonio (Gallarate):  Soprattutto nel recente periodo delle festività natalizie sono rimasto amareggiato dell’atteggiamento del mio parroco nei miei confronti. Mi sono chiesto se devo accettarlo, ascoltandolo e pregando il Signore perché lo aiuti a capire, o piuttosto se sia conveniente frequentare altre parrocchie.

 

Don Giancarlo:  Al di là di questo caso specifico, nei confronti del tema dell’accoglienza si pone la questione di come atteggiarsi, quando il diverso non è solo un diverso per temperamento, per età, ma anche per stili di vita, atteggiamenti che appaiono contradditori con la verità e con la carità. E’ il caso di quale atteggiamento debbano tenere i genitori di fronte a un figlio che  con il suo comportamento viola la loro dignità di papà e mamma.

Nella difficoltà dei rapporti di accoglienza si apre la domanda se l’accoglienza debba avere misure, possa arrivare a porre delle condizioni.

 

Se l’accoglienza è riconoscere che la vita ti è data e che tu sei l’espressione di questo dono, come si qualifica lo sguardo di  Dio?  E’ uno sguardo che mira alla verità dell’uomo; non per nulla sono in atto quattromila anni di storia di alleanza all’interno della quale prima un’etnia, quella ebraica a partire da Abramo, e oggi la Chiesa, c’è un insieme di persone peccatrici: non a caso Gesù, come lui stesso dice, è venuto per i malati non per i sani.

 

E’ venuto per i peccatori e non per i sedicenti giusti. L’etnia ebraica e la Chiesa, etnia sui generis, sono luoghi privilegiati all’interno dei quali l’amore di Dio che è misericordia e quindi è amore smisurato che ha come misura quella di non  introdurre misure,  tende però sempre a far diventare l’uomo vero di quella verità con cui Lui ci ha pensati: Lui ci riscatta, ci redime, ci accompagna educandoci. Allora il primo atteggiamento da recuperare sempre è: qual è la verità di colui che ho lì davanti?

Seconda domanda: quale potrebbe essere  lo sguardo di Dio su di  lui? E qui il paradigma di riferimento è Gesù, perché lo sguardo di Gesù  sulla samaritana, su Zaccheo, sull’adultera, sul condannato a morte, sul  centurione, sui suoi apostoli, su Giuda, lo conosciamo.

 

Alla luce dello sguardo di Dio, presente in Gesù, si cerca quindi di rischiare di operare. Se a me sta a cuore la verità di chi ho di fronte, metto in moto certe dinamiche; se non mi sta a cuore primariamente la sua verità,  posso accontentarmi di “sbolognarlo in quattro e quattr’otto” o posso schierarmi e da schierato trattarlo come attestato su altro fronte. La fatica è non abbassare il livello della tensione dello sguardo e quindi della scelta che la ragione e la libertà fanno in rapporto a questo sguardo che è uno sguardo di Dio, che io desidero imparare ma che ha continuamente bisogno di vigilanza, di registrazione, di verifiche, di mea culpa, di rilanci, senza scandalo né su di sé né sugli interlocutori che hai davanti.

 

Anna  (Busto Arsizio):  Io vorrei dare  eco a quella parte del capitolo che sottolinea molto la misericordia di  Dio, che è praticamente la condizione che ci dona continuamente la vita e che fa di noi un dono per gli altri. In questo lavoro di riconoscimento del valore dell’altro ognuno di noi comprende, data l’esperienza che abbiamo alle spalle, anche la  rivisitazione della vita del proprio figlio o figlia come un grande dono  che Dio non ci ha fatto mancare nella nostra vita. Siccome tra di noi è abbastanza diffusa e condivisa  la certezza che li riavremo, li rivedremo, li riabbracceremo, perché la croce di Gesù ha comportato poi anche la sua resurrezione, ognuno di noi rivede innanzitutto quel figlio o quella figlia come un grande dono.

 

Ecco a me piaceva, sostanzialmente, farvi giungere la parola di una suora di clausura, una suora benedettina, suor Cinzia, che vive nel monastero di Vitorchiano. Anche lei ha parlato di misericordia di Dio proprio in relazione all’ accoglienza della vita nascente. Noi l’abbiamo riportata nel lavoro che abbiamo fatto a sostegno della cultura della vita nascente e l’abbiamo inserita  nel testo che è la riproposizione della mostra “Un grande sì alla vita”. 

 

Suor Cinzia, che prima dell’entrata in monastero era stata una delle fondatrici del Centro di aiuto  alla vita di Busto Arsizio, così scrive: “Carissimi, sono tante le mamme che  ho incontrato al Centro di aiuto alla vita, ognuna con la sua storia e il suo dramma, ogni mamma diversa dall’altra. Ma davanti ad ognuna intuivo che comunque andasse (comunque decidesse di tenere o non tenere il proprio bambino: il Centro di aiuto alla vita è proprio un’associazione a cui le mamme si rivolgono per un aiuto a non rinunciare alla maternità),  il suo destino e quello del bambino che portava in grembo era già nelle mani di un Padre misericordioso che desidera per ognuno il bene, la gioia.

 

Un Dio che non ha esitato a dare la Sua vita proprio perché ogni uomo, anche quello che non è potuto nascere, possa vivere in eterno nel suo cuore. Sì, il cuore di Dio è come un grembo che ci accoglie tutti. Lo sapete che in ebraico la parola misericordia si dice hesed, cioè grembo? Dio guarda con tenerezza ad ogni sua creatura aspettando con trepidazione il momento in cui ci si rivolgerà a Lui chiamandolo Padre…”

Questo momento per i nostri figli è già avvenuto: lo hanno già incontrato e riconosciuto come Padre.

 

Giovanni  (Busto Arsizio): Volevo riallacciami al discorso educativo che Giuseppe ha fatto notare, parlando dei giovani senza ideali. Ma non è un problema solo loro. E’ un problema di noi adulti: la nostra è una società dell’immagine, dove il consenso superficiale diventa prioritario e i giovani ne sono succubi. Dobbiamo aiutarli a riscoprire i veri valori: rimane in loro un cuore aperto a cui dobbiamo dare una risposta.

 

Per quanto riguarda i nostri figli che sono nelle braccia del Padre, ricordo quanto è stato duro, e lo è ancora, affrontare la loro perdita. Ma questo non ci deve portare alla disperazione. Anch’io per la morte della mia bambina, morta a soli cento giorni dopo quindici anni di attesa, sono giunto a “bestemmiare” Dio. In realtà non era una bestemmia: era un’implorazione d’aiuto e questo l’ho trovato nella croce di Cristo, nel Dio, come si diceva, della misericordia, che in Cristo è morto in croce ed è risorto.

Maria Teresa (Busto Arsizio): Quindi torniamo sempre al solito discorso, che io non ho abbastanza fede.

Giovanni  (Busto Arsizio):  No. Non siamo di fronte al solito discorso. Tutti siamo in un cammino di fede. Non è un caso che il nostro gruppo si chiami Famiglie in cammino. Io sono convinto che la croce di Cristo è speranza, speranza  perché porta al Cristo risorto. Al  di fuori di questo, di fronte alla morte di un figlio c’è la disperazione o  la rassegnazione,  che a sua volta è una malcelata disperazione.  Bisogna avere fiducia, pazienza, coraggio, fede: occorre non avere paura, perché comunque c’è Cristo!

 

Sandro (Legnano): Sono ritornato a leggere un libro, “Hai mutato il mio lamento in danza”, nel punto in cui richiama il salmo 40 con queste parole:  “ Sul rotolo del libro c’è scritto di me”. Di me e non del popolo ebreo o di altri. E ancora:  “Ecco Signore, io vengo per fare la tua volontà!”

 

Anche il Padre Nostro dice la stessa cosa:  “Sia fatta la tua volontà”  La morte di un figlio è un dramma per tutti noi. Anch’io  vorrei  risentire mio figlio che mi dice: “Ciao papà!”  invece  mio figlio è morto a causa di un tumore. Ma questo dramma trova conforto nel fatto che la Sacra Scrittura parla di me: “Ecco io vengo, Signore, per fare la tua volontà”.

 

Natale (Usmate):  Chiudiamo questo incontro trattenendo tutto quello che è emerso in queste nostre

testimonianze e soprattutto tenendo cara una cosa:  noi siamo fatti comunque  per la felicità, non siamo fatti per il dolore. Sono convinto che la felicità si raggiunge riconoscendo che qualcuno più grande è qui con noi. E’ Cristo.  Il fatto di rincontrarci mensilmente ci aiuta  a  confermarlo, a tenerlo vivo.

  

     

 

     

 

   

  

 

 

 

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