Incontro del 13 dicembre 2009
Testimonianza di Luciana e Pippo, medici volontari in Uganda
Fondamentale nella vita è non scappare, ma rimanere, esserci.
Giorgio M.: Come è tradizione, in occasione del Natale Famiglie in cammino invita degli amici o comunque dei conoscenti per una testimonianza forte, che ci aiuti a dare senso anche alla nostra vita, malgrado la perdita dei nostri figli. Grazie quindi per essere intervenuti a questa nostra ricorrenza natalizia. Quest'anno Paola e io abbiamo proposto di invitare i nostri amici “ugandesi” Luciana e Pippo, che quanti di noi sono stati al meeting di Rimini conoscono, perché li hanno incontrati presso lo stand di Famiglie in cammino.
Adesso cogliamo l'occasione per recitare la nostra preghiera chiedendo a Pippo di aiutarci, perché lui l’ha sempre in tasca e con essi ha quindi “viaggiato”. Sono rientrati definitivamente dall'Uganda dopo 29 anni trascorsi in quel paese come medici volontari.
Li abbiamo invitati a illustrarci quelle che sono state le motivazioni e la loro esperienza. Grazie quindi a Pippo e a Luciana che sono qui con noi! Per me sono due persone speciali, perché sono state per anni anche i referenti della Fondazione Lidia Macchi, che nel ricordo di nostra figlia opera in Uganda a favore di bambini e di malati: noi praticamente conoscevamo le esigenze che servivano in Uganda tramite loro.
Pippo: Innanzitutto volevo ringraziare per questo invito perché è bello potervi incontrare. In questi 29 anni in cui siamo stati in Uganda abbiamo trascorso solo tre Natali in Italia. In occasione del primo Natale abbiamo potuto partecipare al funerale di Lidia; mi ricordo ancora quella piazza colma e anche il fatto che in quel momento Paola dichiarò il desiderio di trasformare questa sofferenza enorme in un bene per la gente in Uganda; questa cosa ci ha accompagnato in tutti gli anni, tanto che abbiamo seguito l’opera che ne è derivata.
Mi sembra che il tema importante di introduzione sia proprio il come una grande sofferenza si possa trasformare in un bene, quale ad esempio può essere in questo caso la gioia o la consolazione che i bambini dell’Uganda provano nel poter frequentare la scuola. Grazie alla Fondazione Lidia Macchi molti bambini sono andati a scuola, molti malati sono stati seguiti amorevolmente.
Spero che anche al prossimo meeting ci si possa ritrovare ancora.
Luciana e io siamo medici; io sono di Venegono Superiore, Luciana di Varese: ci siamo conosciuti e come medici siamo andati in Uganda. Tra l'altro ho avuto il piacere di conoscere don Giancarlo, negli anni 71/72 quando era a Varese come sacerdote.
Io racconto sempre quattro momenti particolarmente significativi della mia vita. Innanzitutto sono nato in una famiglia che mi ha educato ad una attenzione per i poveri e ad avere una sensibilità speciale per i problemi sociali, nei confronti dei quali i miei genitori hanno dimostrato un particolare impegno. Sono quindi cresciuto con l’idea che è importante essere attenti ai bisogni della gente: in casa nostra c'era sempre la possibilità di aiutare qualcuno. I nostri genitori ci hanno educato a questo.
Importante è stato successivamente l’incontro con persone che regolarmente frequentavano la parrocchia quando ero piccolo e poi, quando ero al liceo, l’incontro con un sacerdote.
Andavo a trovare i malati e le persone anziane; ho trascorso un lungo periodo al Molina di Varese, (Casa di ricovero)dove mi ero veramente legato alle persone. Pian piano sentivo sempre più in me un sentimento di dedicarmi agli altri con un preciso impegno esistenziale. E con questo sentimento ho conosciuto Luciana. A parte l'aspetto affettivo, ho trovato anche in lei questo interesse; insieme abbiamo deciso di laurearci in medicina per aiutare la gente.
A Varese c'erano alcuni medici che erano andati in Uganda per esercitarvi la loro professione. Questi medici, comuni amici, erano partiti per l'Africa, andando a lavorare in alcuni ospedali del Nord Uganda. Da quello che raccontavano, li vedevamo molto felici, contenti; ci siamo quindi sentiti attirati da loro; così abbiamo deciso, nel 1980, di partire per fare anche noi quanto loro già facevano.
Abbiamo così sperimentato che in quei luoghi ci sono ci sono tanti pericoli, soprattutto per i bambini, ma questa era la nostra scelta: star lì con la gente. E così, nel Nord dell’Uganda, siamo stati una decina di anni, per poi scendere a Kampala, la capitale, dove i nostri bambini sono ulteriormente cresciuti e dove abbiamo continuato la nostra attività di medici presso un ospedale.
Personalmente mi sono interessato maggiormente di gestione di progetti internazionali: lavoravo per le ONG, per l'Unicef e un po’ per il governo italiano. In quegli anni abbiamo anche seguito le iniziative del Centro Lidia Macchi.
Quando quest’anno siamo rientrati in Italia; la prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di andare da uno di questi medici, Enrico Guffanti, a ringraziarlo per i 29 anni assolutamente straordinari della nostra vita che non dimenticheremo mai. Adesso siamo qui e molte persone si chiedono se ci manca l'Africa, se non abbiamo nostalgia, se non soffriamo “il mal d'Africa”.
Devo dire che quello che ci manca un po' è il clima: in Uganda c'è un clima straordinario; questo Stato si trova su un altipiano sulla linea dell’equatore, con un grande lago, con una temperatura di 20-25° per tutto l'anno. Soprattutto quello che ci manca è il contatto con tante persone, tanti amici, tanti volti di persone straordinarie incontrate in questo paese; però devo dire che quello che troviamo ritrovato qui è di una ricchezza straordinaria: gli amici, le nostre famiglie, i nostri ragazzi. Veramente la cosa più bella che abbiamo ritrovato sono i volti, a partire dai volti barbuti dei Comboniani, da quelli dei nostri genitori, dei nostri amici, degli altri medici: tutti i volti di tante persone che hanno segnato il nostro cammino e penso che continuino a segnarlo.
Luciana: Alla domanda che ci rivolgono: “Vi manca qualcosa?”, io rispondo che l'Africa, l’Uganda, ci ha fatto un dono grandissimo, che è il nostro ultimo figlio, un bambino che abbiamo adottato. Era molto piccolo quando l’abbiamo per la prima volta incontrato; tra l'altro Paola e Giorgio sono venuti a trovarci in occasione del primo Natale trascorso da Emanuele nella nostra casa; se lo ricordano bene, si chiama Emanuele Garlanga. Io lavoravo in ospedale a quel tempo; noi abbiamo una prima figlia adottata non ufficialmente, nel senso che è vissuta con noi molti anni, è entrata in casa nostra che aveva 12 anni, quando eravamo ancora a Kitgum nel Nord. Era venuta nella nostra casa per aiutarmi, perché dopo la nascita del mio terzo bambino, Matteo, dovevo riprendere a lavorare e avevo bisogno di una baby-sitter; si chiama Jojo. Matteo aveva allora quattro o cinque mesi: era un bambino bello, florido; un giorno in dispensario ho visto invece una mamma malata di tubercolosi con un bambino piccolo, malnutrito, molto sofferente. Dopo aver fatto ricoverare in ospedale la mamma, ho pensato che potevo allattarlo, perché io stavo quasi svezzando il mio Matteo. A quei tempi era appena iniziata la guerriglia, c'erano pericoli fuori dalla cittadina, Kitgum, dove vivevamo. La mamma di Jojo, che viveva in un villaggio, mi aveva scritto chiedendomi di ospitare questa bimba, perché lei temeva che i guerriglieri potessero rapirla, come hanno fatto per tanti anni, e così l’ho accolta.
Jojo mi è stata utile proprio in quei mesi, in cui allattavo anche Pietro, così si chiamava quel bambino della mamma ricoverata in ospedale e che poi ho battezzato in un momento in cui era in pericolo di vita, Quando nel ‘92 la mamma di Jojo morì, proprio sul letto di morte affidò a Pippo questa ragazza, che già era orfana di padre e che quindi rimase con noi.
Adesso Jojo vive in Italia, è sposata con un giovane insegnante di matematica: hanno tre bambini di cui una adottata, perché figlia della sorella, morta di Aids.
Tornando a Emanuele, il bambino che abbiamo adottato, devo dire che fra i nostri sei figli naturali, quattro femmine e due maschi, i maschi desideravano un altro fratellino. Ma gli anni passavano, senza che ciò si avverasse. In casa si diceva che se Dio ce ne dà uno, lo prendiamo già fatto!
E così un giorno, dopo l'ambulatorio per malati di AIDS, comunicai alla responsabile dell'ospedale che davamo la disponibilità come famiglia all’adozione di un bambino. In realtà le cose non succedono casualmente, ma è il Padreterno, la sua provvidenza che mette lì le cose e capitano una accanto all'altra. Così quando la mattina seguente dovetti tornare in ospedale molto presto per portare lo striscio di sangue di una bimba di amici che aveva avuto la febbre alta durante la notte (si temeva che fosse stata colpita dalla malaria), fui invitata a parlare anche con la responsabile del personale infermieristico, in quanto a volte succedeva che qualche mamma moriva di parto in ospedale e i bambini rimanevano soli.
Mentre aspettavo il risultato dell’analisi di laboratorio, decisi di andare a parlare con questa persona; andai, manifestai la nostra disponibilità e questa signora subito si entusiasmò: mi disse di andare subito in nursery dove c'era già un bambino orfano di circa tre anni.
Era nato in ospedale, ma era rimasto lì: nessuno era mai venuto a prenderlo. Si chiamava Moses; i nostri figli si chiamano tutti con un nome che inizia con M: Maddalena, Monica, Matteo, Maria, Margherita e Michele; ho quindi pensato che fosse lui, Moses, il bambino che attendevamo.
Andai nel reparto dove c'era questo bimbo in un lettino in piedi attaccato la spalliera, ma l'infermiera mi disse che finalmente, dopo tre anni, una famiglia sarebbe venuta a prenderlo: era proprio questione di giorni. Nel lettino di fianco a questo c’era però Emanuele, che era stato trovato due mesi prima in ospedale; la mamma o qualcuno probabilmente l'aveva portato lì, abbandonandolo: era molto emaciato, asmatico, magrissimo, scheletrico, ipertonico, ma con due occhioni che chiedevano affetto.
Subito è nato un amore, un'intesa, consolidatasi nei giorni seguenti al mio ritorno in ospedale. Così, in una mattina molto intensa chiamai Pippo, che era a Kitgum, dicendogli che c’era questo bambino che ci aspettava; lui, dopo un sobbalzo, mi disse: ”Ma come! Vado via 3-4 giorni e tu …”.
Così Emanuele è entrato a casa nostra; successivamente abbiamo fatto tutti i passi ufficiali per avere prima l'adozione in Uganda e poi l'adozione in Italia. Uno dei fattori per cui siamo anche rientrati è perché Emanuele ha 12 anni: ha iniziato a settembre la seconda media e pensiamo che l'inserimento suo qui in Europa a quest'età possa essere forse più facile che non quando sarà più grande.
Pippo: Ma c’è anche un altro bambino nella nostra vita: si tratta di Doroty, una ragazza che ora ha 22 anni, ed è veramente come un’altra figlia. In Africa la situazione sanitaria è estremamente difficile; nel mio ospedale eravamo solo in due medici con 200 letti e una mortalità molto alta. Ad un certo punto abbiamo avuto una bimbetta, Annet, affetta da una malattia simile alla talassemia, un problema congenito del sangue; questa bambina era molto grave ed è stata in ospedale per tre mesi. Mi ricordo della mamma e del papà che stavano vicini a questa bimba.
Ad un certo punto è guarita temporaneamente; sono passati 5/6 mesi e io nel frattempo avevo cambiato ospedale.
Ad un certo punto sono comparsi i genitori di Annet: lui si chiamava Sunday e lei Florence. Sunday mi disse: “Mi devi aiutare ancora una volta, perché Florence aspetta un bambino e tu devi aiutarci ad abortire, perché noi non vogliamo che soffra tutto quello che ha sofferto Annet!”.
La malattia è ereditaria: un bambino su 4, il 25% , ha possibilità che di essere ammalato.
Ho spiegato a loro che questo bambino potrebbe essere perfettamente sano, magari solo portatore della malattia; ho quindi cercato di calmarli, di aiutarli. Alla fine ci siamo messi d'accordo, facendo un patto: se nasce malato, lo date a me!
Poi sono spariti: c'era la guerra. Dopo un anno, mentre ero in auto, verso mezzogiorno ho incrociato un'altra macchina. L'autista dell'altra macchina mi ferma, scende, mi dà una fototessera, dicendo: questa è tua figlia; risale in auto e se ne va.
Ho rivisto questa famiglia dopo tanto tempo; avevano anche un fratello malato: sono venuti a cercarci e siamo diventati amici. Dopo Dorothy hanno avuto altri tre figli, tutti sani.
Una cosa che premevo dirvi è che la caratteristica più importante, più significativa per noi, è questa: fondamentale nella vita è non scappare, ma rimanere, esserci. Tutta la nostra vita, e con essa i tantissimi amici, tutte le cose belle che sono successe sono capitate perché non siamo fuggiti; per esempio non siamo scappati quando c'era la guerra, ma siamo rimasti con la gente.
La gente del posto è sempre rimasta stupita del fatto che non siamo mai andati via; l’importante è stato stare con loro.
La nostra prima figlia si chiama Aber; il nome in Africa non viene dato dai genitori, ma viene dato dalla comunità. Tutti i nostri figli hanno un nome africano, in particolare la prima, Maddalena, è chiamata Aber, perché le infermiere dell'ospedale in cui lavoravamo hanno voluto chiamarla così: ci hanno chiesto di dare questo nome alla nostra bambina perché siamo stati con loro in un momento di grande difficoltà.
Mi ricordo che a quei tempi mancavano tutte le cose: si andava in Kenya, si facevano 600 km per andare a prendere la farina, per poter fare il pane; non avevamo l'acqua in casa, dovevamo andarla a prendere alla fonte, non c'era l'elettricità.
Noi siamo rimasti con loro in un momento difficile; a me piace ricordare questo nome, Aber, perché ricorda uno dei momenti, durante la guerra, in cui siamo rimasti e non siamo scappati, neppure quando è successa l'epidemia di Aids. Una cosa che ricordiamo con straordinaria gratitudine è l’essere stati con loro: siamo stati con le persone anche in situazioni in cui non c'era una terapia. L’importante era stare insieme e non scappare, ma esserci.
Nel tempo abbiamo verificato che se tu stai con un'altra persona, è perché sei sicuro che tutto ha un senso, che tutto ha un valore in qualsiasi circostanza.
Anche qui, di ritorno in Italia, ci sembra di essere a casa nostra, perché con voi si vede che quello di cui abbiamo bisogno è la compagnia.
E’ sempre necessario non scappare, è sempre importante rimanere e questo nel tempo dà dei frutti: amicizia, tenerezza, gratuità.
Matteo: Lei ha detto che sono stati 29 anni straordinari; che cosa vi ha spinto a rischiare la vita tutti i giorni?
Don Giancarlo: In un contesto africano che ho già sentito anche da altri, soprattutto in condizioni di morti, di giovani vite stroncate per malattie, epidemie, sottonutrizione, bombardamenti, eccetera, come tentavate di porvi di fronte a quei genitori che si vedevano privati dei figli di punto in bianco o di fronte all'epilogo di una malattia che non ha dato scampo?
Pippo: Per noi quello che dà energia è la bellezza di una compagnia, come la vostra. La realtà che ci ha aiutato in tutto questo cammino, anche nel rimanere di fronte a situazioni difficili, è stata la bellezza di un'esperienza di comunità; eravamo con amici, nella certezza di un bene che insieme sperimentavamo. L’essere ad esempio con la famiglia è fondamentale.
Quello che spinge a rischiare è la sovrabbondanza di un bene, perché è solo il bene che permette di stare di fronte al male; quindi tutto il bene, che noi abbiamo conosciuto con la nostra esperienza, abbiamo desiderato condividerlo. Di conseguenza non scappavamo perché c'era un bene che non aspettava altro che di essere comunicato: il bene voleva dire star lì a curare quanti avevano bisogno di aiuto, stando in loro compagnia.
Amo sempre dire che la bellezza di stare insieme riempie di stupore; anch’io dicevo: queste persone benché tutte segnate dalla sofferenza, sono capaci di fare festa; questo genera un’energia di lavoro, di positività. Noi facciamo tutto a partire da una bellezza, che genera uno stupore che porta a un lavoro per risorgere, perché il rapporto tra uomini torni ad essere un rapporto di pace, perché tutto il male che è successo possa trasformarsi in bene.
L'esperienza che noi abbiamo fatto è stata l'esperienza di una società, quella africana, che naturalmente è comunitaria e quindi lo stare insieme a chi viene ferito è immediatamente un aspetto di compagnia, di attenzione familiare.
Raramente, ad esempio, un bambino è abbandonato; io sono rimasto assolutamente commosso dalla capacità di accoglienza di tante realtà povere di fronte a tragedie come perdere i figli, di fronte a capacità di tenersi insieme e di stare insieme.
Quindi la cosa che noi abbiamo sempre fatto è il non scappare, ma il rimanere lì, perché di fronte a certe situazioni, come ad esempio a bambini che morivano, a genitori straziati, non abbiamo permesso che qualcuno rimanesse da solo. Noi come compito abbiamo sempre pensato che siamo chiamati a far compagnia.
Luciana: Aggiungerei qualcosa sulla questione del dolore. Io ho imparato da tantissime persone, dagli ugandesi, una capacità di accoglienza che non è rassegnazione; molto spesso noi occidentali consideriamo gli africani inclini per natura alla rassegnazione; invece nella mia esperienza ho incontrato mamme, che perdevano i bambini a causa delle malattie o per motivi violenti a motivo soprattutto della guerriglia, con la certezza che niente andava perduto. Andava perduta quella forma, ma il tuo bambino va là dove si è compiuto il suo destino; si tratta di un'espressione di fede… Molte donne mi hanno trasmesso questo messaggio: “La forma cambia, ma tuo figlio c'è”.