INCONTRO DEL 15 NOVEMBRE 2009
La morte di un figlio ci mette alla prova in maniera forte!
Tre suggerimenti, ripartendo da Cristo, per vincere la disperazione
Natale (Usmate): Nel nostro ultimo incontro abbiamo riproposto ancora il testo di Lepori, Fu invitato anche Gesù, partendo dalla pagina 33 dove, attraverso la lettura, viene dato un aiuto di riflessione che può far nascere dei dubbi o delle domande.
Vivere di fede implica affrontare tutto, in particolare le prove, implica vivere sempre tutto ripartendo da Cristo, per rendere la nostra vita più vera, libera e sicura. Nella prova diventa più evidente che è perdente partire da noi stessi o da chi ci sta accanto: è già così per te e per noi? Da che cosa lo deduci e come impararlo?
Ripartire da Cristo rende l’uomo testimone della speranza del cambiamento, come Marta è corsa da Maria dicendo: “ Il Maestro è qui e ti chiama”e, in occasione delle nozze di Cana, al servitore Maria risponde: “ Fate quello che Lui vi dirà”.
Da queste provocazioni facciamo nascere delle domande di riflessione; il testo ci aiuta. Secondo me bisogna proprio immedesimarsi in quello che viviamo e testimoniarlo. Raccontare di sé: come si vive l’incontro con Cristo, come lo si vive con la moglie, con il marito e con i propri figli; questo ci suggerisce il testo. E poi, liberamente, se ci sono delle testimonianze di un incontro fatto in questo ultimo periodo, mettiamolo in comune.
La seconda cosa che volevo dire è che siamo finalmente riusciti a riproporre le sbobinature delle testimonianze di questo ultimo periodo, partendo proprio da quella estiva e questo grazie alla collaborazione di alcuni di noi. Siamo ben contenti se qualcun altro si propone per questo lavoro.
Anna (Busto Arsizio): Vorrei soffermarmi sulle parole di Giovanni Paolo II, il quale, come riporta il testo di Lepori a pagina 37, aveva lasciato alla Chiesa del nostro millennio un compito espresso nell’invito a “ripartire da Cristo”. Giovanni Paolo II è riuscito a modulare in un modo estremamente globale cosa significhi per noi uomini del terzo millennio questo forte invito.
Significa ripartire da quel progetto che Gesù ha per l’uomo, dall’attenzione che Gesù ha per l’uomo in tutte le sue valenze, in tutte le componenti della sua esperienza. Sulla scorta di questo invito con mio marito Giovanni e con altri amici abbiamo lavorato ultimamente, per circa un anno, per proporre innanzitutto a noi, e poi all’attenzione di altre persone, cosa sia il valore della vita.
Abbiamo lavorato per una mostra intitolata Un grande sì alla vita, in cui viene sostanzialmente suggerito uno sguardo di valore su alcuni aspetti della vita, soprattutto sulle problematiche della vita nascente. E’ la riproposizione dell’insegnamento di Gesù e quindi della Chiesa a proposito di una tematica quale il valore e la dignità di ogni persona fin dal concepimento, oggi non proprio condivisa dalla società che ci circonda. L’abbiamo fatto proprio con un atteggiamento missionario, sapendo che è nostro compito diffondere la cultura della vita. Diciamo che è stato un lavoro molto premiato, ben al di là delle nostre aspettative. La Provvidenza ci è venuta incontro e ha davvero moltiplicato i nostri sforzi, le nostre capacità, le nostre intelligenze: la mostra ha già avuto nella nostra città di Busto Arsizio la visita guidata di più di 500 giovani, che si sono confrontati con queste tematiche importanti, ma abbastanza lontane dai loro modi di pensare. E poi la mostra, richiesta in varie località dell’Italia, sarà nei prossimi mesi visitata da altre persone. Collegata ad essa è stato pubblicato dalla casa editrice Ares il testo Un grande sì alla vita, che è praticamente la trascrizione di tutto il percorso della mostra. E’ frutto del lavoro che abbiamo fatto con gli amici del Centro di aiuto alla vita di Busto Arsizio nel ventennale dalla fondazione; il ricavato andrà al Centro di aiuto alla vita.
Ecco, questo impegno ha attinenza con il Ripartire, perché tutto il lavoro e soprattutto i momenti di fatica, sono stati motivati e sorretti da un ideale più grande e da una chiamata che ha una specificità di impegno a difesa della vita legata anche alla storia della nostra famiglia.
Don Giancarlo: Non ho capito il nesso fra questo e il ripartire da Cristo.
Anna: Ripartire da Cristo vuol dire, nel nostro caso, diffondere ciò che Cristo ha da insegnare alla cultura del giorno d’oggi, come il valore imprescindibile della vita e della persona umana. Io credo che la difesa della cultura della vita deriva da un preciso insegnamento della Chiesa. Giovanni Paolo II e ancora Benedetto XVI hanno sottolineato e continuamente sottolineano questo messaggio, chiaramente mutuato dalla sapienza del Vangelo, invitando i cristiani a trasmetterlo alla società intera. Aver lavorato per dare voce a questo messaggio, per noi sostanzialmente è stato un ripartire da Gesù.
Sul piano più personale, durante l’estate ho fatto una rilettura del Padre Nostro, attraverso un libretto del patriarca di Venezia Angelo Scola. Il testo, Il Padre Nostro, edito da Cantagalli, è molto intenso: se avete modo ve lo consiglio come lettura. Lì il patriarca suggerisce una modalità di interpretazione dell’invocazione “Sia fatta la tua volontà”, che per me è stata un po’ una rivelazione. Quando normalmente diciamo “Sia fatta la Tua volontà”, allarghiamo le braccia come in una specie di sottomissione, faticosa, a un disegno che il più delle volte non coincide con il nostro.
Invece il testo suggerisce di tenere presente che la volontà di Dio, che si compie nella nostra vita, è sempre una volontà di amore. E non potrebbe che essere così, per cui quando noi diciamo “ Sia fatta la tua volontà”, dobbiamo avere la coscienza che il Signore, comunque, ci viene incontro, ci cerca per proporci il suo bene, il suo amore. Dunque, quando le circostanze diventano veramente faticose e difficili, rileggere tutto quanto in questa ottica è ripartire da Gesù, riconoscere che comunque Gesù c’è, è presente e ci viene incontro.
Don Giancarlo: Che cosa suscita in voi l’ultimo passaggio di Anna sul disegno di Dio che porta sul fronte della nostra vita la conoscenza, o meglio la possibilità di far conoscenza, della sua volontà, quindi del suo cuore che è amore? Cosa risveglia dentro di noi? Ci crediamo che è così?
Scerry: Accadono delle cose che fanno una rabbia incredibile. Come facciamo ad affrontare quello che accade? Mi mette alla prova, va bene, ma ritengo impossibile decidere di doverla sopportare! Come si può affrontare una situazione tremenda?
Don Giancarlo: Provandola!
Scerry: Non è possibile, non è spiegabile, non sono sufficienti le tante parole che dappertutto mi giungono: dalla Bibbia, dal Vangelo, da chi è alla ricerca dello spirito, dell’anima… Faccio fatica a vedere!
Don Giancarlo: Ecco, nel buio non si vede, è tutto nero; il buio porta con sé confusione, smarrimento, rabbia, apertura di domande, di dubbi…, insomma malessere. Nel buio il cuore dell’uomo, che è fatto per la luce e per la verità, sta male. Giustamente hai chiamato questa situazione con il termine di prova. Quando si è di fronte a prove rabbuianti cosa c’è da fare per poter riavere la luce o per potere riuscire a guardare la realtà nella condizione più regolare e anche più vantaggiosa? Innanzitutto non dobbiamo disperarci. Chi ha fatto l’esperienza della luce e poi è entrato nel buio sa che il buio non è la condizione definitiva.
Porto un esempio. Ieri sera stavo a tavola con una salvadoregna e la sua famiglia; mi ha parlato dell’uragano che ha colpito la sua terra e ha seminato decine e decine di morti, di cui i nostri giornali non hanno nemmeno parlato. L’uragano non è la condizione normale: è una prova che, anche se preannunciata o prevista, malgrado possa seminare disastri e distruzioni, poi passa. Se uno si trova colpito, che cosa fa? Cerca di sopravvivere e di uscire da quel brutto momento, per poter recuperare uno spazio di tranquillità, di riposo, di stabilità con cui verificare e riparare i danni subiti.
Così nel buio dell’anima: di fronte alla morte di un figlio occorre non disperarsi, ma far memoria, recuperare la certezza della luce, la certezza della speranza, la certezza dell’amore dato e ricevuto. Ecco questa è la prima àncora a cui aggrapparsi. Ce n’è una seconda, che è quella di ripartire non da me che sono nel buio, non da me che sono nella confusione, ma da Cristo; il che vuol dire ripartire da quelle persone, e ci sono, che hanno imparato una capacità di sguardo e di immanenza alle situazioni di prova con un coraggio, una perseveranza, con una stabilità di giudizio vero da cui si può imparare. Famiglie in Cammino è nata così: mettersi insieme a qualcuno che può illuminare e dare a me nella prova un incoraggiamento, una vicinanza di conforto, parole che sono dette col cuore in modo vero. Al momento sembrano sterili, non portatrici di sereno; ma poi, come ogni verità, scavano nell’animo e lasciano la seminagione di un passaggio che dà luce. Nei momenti di buio il suggerimento è di aggrapparsi, stare vicini, dialogare, confrontarsi con chi oltretutto è passato prima da certe prove.
Scerry: Non riesco a capire, a comprendere. Cosa cerco se non vedo all’orizzonte alcuna luce?
Fiorina (Cairate): Nei momenti bui, quando ti senti sola, prendi il telefono, telefonaci… Noi oggi ti tendiamo una mano, tu afferrala!
Don Giancarlo: C’è anche un terzo suggerimento: ripartire da Cristo vuol dire pregare Lui che è tutto e che può tutto.
Scerry: La morte di un figlio ci mette alla prova in maniera forte!
Don Giancarlo: Certo, è una prova forte! Che le prove siano crocifiggenti, soprattutto alcune, scarnificanti, è vero; ma ricordiamocelo: Dio non permette mai che un discepolo sia provato al di sopra delle sue forze, al di sopra delle sue capacità di accettazione e sopportazione della croce. Se leggete Paolo e l’Apocalisse, questo messaggio è chiarissimo.
Scerry: Mio figlio sceglie di suicidarsi… non ho capito!
Don Giancarlo: Attenzione, la prova è la ferita che viene da questo. La scelta è del figlio, non è di Dio. Come vi dicevo prima, certe disgrazie, certe prove non dipendono dalla libertà e dalla responsabilità delle persone che sono in gioco: pensate al terremoto in Abruzzo, pensate agli uragani, agli tsunami, alle colate vulcaniche… Altre prove invece noi le vediamo e le capiamo che sono tremende dopo l’accaduto; prima non ci balenava neanche per l’anticamera del cervello che ci sarebbero potuti accadere certi fatti. A fatti avvenuti, ci accorgiamo di essere sull’orlo dell’abisso, di essere di fronte alla prova che nel buio ci fa temere la caduta nel precipizio.
Ora, guai se imputiamo a Dio o a noi cose che non sono attribuibili né a Lui, che è amore e vuole il bene (si è incarnato e ha dato in Cristo Gesù la vita per questo), né a noi genitori, educatori, che vogliamo il bene e la felicità dei figli naturali o dei “figli” che ci sono stati affidati nell’accompagnamento educativo. Allora, su questa base ripartire dal Signore vuol dire invocarlo: “O Signore, stammi vicino; dammi la forza e la luce della tua sapienza, che nel tempo mi aiuti a guardare mio figlio, l’accaduto o l’accaduto di altri, con i tuoi occhi!” Guardare con gli occhi di Dio vuol dire leggere e partecipare dell’accaduto con il cuore di Cristo. Di conseguenza la domanda non è quella di chiedersi il perché dell’accaduto, il perché è capitato proprio a me in questa forma imprevista, senza accenni, senza preliminari, senza presentimento. E’ invece il chiedersi su dove vorrà condurmi il Padre Eterno attraverso questa prova che mi sento incapace di accettare e di portare, perché troppo pesante.
Nella pazienza del tempo, i tre suggerimenti che ho indicato possono portare al miracolo della pace, non alla soluzione, perché la ferita c’è e si rimarginerà solo in Cielo. La ferita rimane, come tutti lo avete testimoniato decine di volte. E’ una ferita che si riapre in tante occasioni durante l’anno e riaprendosi fa soffrire, ma è una sofferenza che decanta, che spurga più si va avanti. E’ una ferita che fa soffrire, ma che eleva il cuore e lo rende capace di offerta: quello che per me è una croce faticosa la offro a Te, o Signore, e la porto con Te. Come dice Paolo, porto nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo.
Anna Maria (Milano): Per me il dolore di Scerry è troppo recente. Non può vederlo sotto la stessa nostra ottica; però sono sicura che se lei prova a entrare nel nostro gruppo, ce la fa. Avrà il momento in cui piange, ma anche il momento in cui sorride. Ascoltami Scerry, se tu vai
assieme a persone, a coppie che non hanno provato la tua esperienza, non possono capirti: ti dicono mi dispiace, è successa grossa… Malgrado queste parole, rimani sola con il tuo dolore. Invece noi, avendo provato tutti la tua esperienza, ci sentiamo solidali con te. Verrà il momento in cui ti chiederai il motivo della nostra sofferta serenità, nonostante sia successo anche a noi quanto ti è capitato.
Scerry: Mi ha colpita la frase detta da una signora che Dio ci mette alla prova. Ma cavolo, che prova! E’ andato Lui sulla croce, allora dobbiamo andarci tutti. Questa mi sembra una
cosa insostenibile!
Un’amica: E non ti sembra di avere una ribellione così forte nei confronti di Dio…? Tuo figlio lo ha preso il Signore ed è di sicuro con Lui.
Scerry: Questo messaggio mi può dare conforto, ma non so se lo avrò. Non lo so…
Un’amica: Il conforto è Lui che te lo dà. Non chiederti più del perché e del per come ...
Scerry: Io non riesco ad elaborare questa cosa.
Fiorina (Cairate): E’ presto, è troppo presto; ci vuole del tempo.
Don Giancarlo: E’ difficile, però ci riuscirai. Noi siamo esternamente corpo, materia, ma dentro di noi c’è la nostra anima (non è quel cappotto che rivestiamo). Domani, quando ritorneremo da dove siamo venuti…
Scerry: Poi non so… So che Dio è uno solo rappresentato dalla nostra religione cattolica: è il Dio di Budda, il Dio di qualsiasi altra religione. Tutti parlano che noi dovremmo tornare in spirito. Ci troveremo di là, ma adesso io che debbo fare? E’ adesso che ho bisogno di Lui. Sì certo, prego Dio: assistimi, vienimi in aiuto, ma …
Don Giancarlo: I tre suggerimenti, che ho dato, sono come l’autostrada che conduce alla meta: si tratta di avere la pazienza di provarli e di verificarli in questo cammino. Noi tutti ti tendiamo la mano: sta a te, come lo è stato per noi, vederla e muoverti per afferrarla e stringerla per camminare insieme. Certo, coloro che sono più vicini a lei possono meglio aiutarla, memori anche dell’esperienza di quando le loro prove erano lancinanti.
Dopo le prime settimane dall’accaduto, cala il sipario del silenzio e della rarefazione della vicinanza di persone; qui bisogna prendere l’iniziativa per una visita, una telefonata ecc. in modo tale da aiutare chi ha bisogno per poter sempre essere stimolato ad alzare lo sguardo anziché ritirarlo su di sé, perché lo sguardo adesso vede buio come lo sguardo di chi è dentro prove atroci.
L’ultima cosa che io voglio riprendere, brevissima, dell’intervento di Anna è la considerazione che chi è passato da certe prove che avevano come contenuto il vivere la vita, poi, per quel processo di purificazione, di approfondimento del valore del significato della vita, è più facilitato nel raggiungere una quota di sensibilità che lo rende più capace e più attento alla cultura della vita, a vivere pro-life. La mostra, di cui parlava Anna, è venuta fuori anche da questo: solo chi fa esperienza di una certa intensità attribuisce poi in modo veritiero anche salti di maturazione, passaggi qualitativi, diventando in molti casi artefice e protagonista di gesti o di opere a favore di altri, a favore di tutti.
Ecco, volevo riprendere questo perché sul fronte della vita avremo poi da meditare sul prossimo capitolo del libro di Lepori che parla proprio dell’accoglienza della vita, non solo nello stadio nascente ma in tutti gli stadi. La vita che c’è in noi, la vita che pulsa negli altri o che tende magari a tramortirsi negli altri con le droghe, con forme estreme dove non capisci più se si è superata la soglia della coscienza e si è planato nell’incoscienza, più simile alla follia che alla ragionevolezza. Troveremo pagine che proseguono la possibilità di questa riflessione, che oggi ha avuto i suoi primi spunti.
Marisa (Busto Arsizio): Desidero tranquillizzare la nostra amica Scerry perché una preghiera da parte nostra ci sarà sempre; ci sarà un giro di preghiere che la sosterranno qualunque cosa accada.
Voglio rifarmi al libro di Lepori, a pagina 35, dove parla del rapporto con la famiglia. La relazione familiare mostra di più la persona come è.
“La relazione familiare, come l’amicizia - scrive Lepori -, acuisce la forza della domanda che il dramma della vita ci pone, e ci fa sentire ancora più fortemente la nostra impotenza a poter rispondere noi stessi a questa domanda.”
Ecco mi aggancio a quanto letto. Questo mese abbiamo sofferto per la morte di due amici, che con Marcello frequentavano da diciotto anni scuola di comunità. Mi hanno fatto vedere con la loro vita cosa è la santità vissuta nella semplicità quotidiana. Erano due persone semplici. Nella loro vita niente di speciale: né direttori di azienda, né manager; due persone che come me hanno avuto le difficoltà che ogni giorno la vita ci pone. Ebbene, nel momento della loro prova, le loro mogli mi hanno detto: “Noi non siamo sole, perché attraverso la loro compagnia non ci sentiamo sole”. Queste due persone in ogni momento della loro vita avevano comunque presente questo: far sì che chiunque le incontrasse, incontrasse Cristo e questo fatto porta le loro mogli a non sentirsi sole.
Ci hanno indicato la via che è Cristo. E ce l’hanno indicata con grande semplicità.
Anna Maria (Milano): Il mio unico figlio è morto quattro anni fa. Da quanto ricordo, rispetto agli inizi del nostro cammino di fede tu, Scerry, sei molto più avanti di quanto lo erano tanti di noi, perché tu sei già riuscita ad aprirti. Secondo me questo è fondamentale. La prima volta che sono venuta a Famiglie in Cammino, erano trascorsi già cinque-sei mesi dalla morte di mio figlio; non ero certo al punto in cui sei tu. Ti capisco profondamente perché a un fatto del genere una madre, ma credo anche un padre, si faccia delle domande, abbia dei sensi di colpa; è quindi normale lo smarrimento, il non capire più niente. Anch’io, credimi, ho sofferto il dubbio, che poi si è rivelato inesatto, ma è quanto prova una madre. Io parlo per noi donne: è pazzesco il pensiero di non essere riuscite ad aiutare nostro figlio. Quindi io ti dico con tutto il cuore che tu sei già molto più avanti di quanto fossi io.
“La fede - ricorda Lepori - vuol dire proprio reagire all’esaurimento umano ripartendo da Cristo”. Io, all’interno di Famiglie in Cammino, ho degli amici; poi è naturale che si seguano alcuni e non altri perché ci sono le affinità elettive. Ti posso però dire che abbiamo una guida spirituale che al momento giusto, se ne sei capace e ne hai voglia, ti darà sempre e comunque una mano. Io l’ho provato sulla mia pelle e, credimi, funziona. In un momento di estrema crisi - è successo due mesi fa - io mi sono sentita dire (ringrazio don Giancarlo per questo): “ Anna Maria, il tuo problema è che non ti vuoi ricaricare; quando sei scarica ti devi ricaricare!”. In effetti è così: anche noi abbiamo bisogno di energia.
Ti parlo per esperienza. Malgrado gli anni trascorsi dalla morte di mio figlio Massimiliano, i momenti bui ritornano. Certo, bisogna avere la forza, la costanza di attaccarsi a chi è in grado di aiutarti. Bisogna fare anche delle scelte dolorose: gli amici di sempre possono metterci tutta la buona volontà, ma non sono in grado di aiutarti. Possono dirti parole, però non sanno quello che hai provato tu, non lo sanno e, speriamo, non lo sapranno mai.
Natale (Usmate): Mi rendo conto che ripartire da Cristo implica tra le molte cose innanzitutto una: bisogna essere convinti che Lui c’è e sapere chi è. Perché dico questo? Perché alcune volte mi nascono dei dubbi: quando uno è nella difficoltà o nell’incapacità di fare delle cose sorgono dei dubbi. Se non ci si affida, in questo caso se non riparte da Cristo, c’è il rischio di fare da sé e di non trovare una vera risposta. Il Vangelo della pesca miracolosa è in questo caso esemplare anche per noi: a Pietro sconsolato per non aver pescato nulla per tutta la notte, viene rivolto da Gesù l’invito a gettare di nuovo le reti. Pietro secondo me è stato colpito dalla persona straordinaria che era ed è Gesù ed ha ubbidito al suo invito, rimanendone premiato.
E’ quanto capita a noi; è quanto ho incontrato e sto vivendo in Famiglie in Cammino, perché a un certo punto mi si è messa davanti una persona che mi ha detto: “Da questa cosa devi uscire, stiamo insieme!”. Stare insieme significa ripartire da Cristo, altrimenti da soli non si arriva a nulla, perché poi alla fine si cade nei nostri limiti, nelle nostre incapacità. E’ da questo che uno deve ricominciare, altrimenti non se ne esce.
Giorgio T. (Milano): Voglio riagganciarmi al discorso che ha fatto Natale. Cosa vuol dire ripartire da Cristo? Vuol dire chiedere a Lui l’aiuto e avere la consapevolezza di due cose. La prima è sapere, come ricorda Natale, chi è Gesù Cristo. Quando ero un cristiano della domenica non mi rendevo conto esattamente chi fosse Gesù Cristo. Questo nostro gruppo, aiutando me e mia moglie Raimonda ad approfondire il senso cristiano della morte di nostro figlio, ci ha fatto capire quello che ci era successo evitando la disperazione. Ci ha aiutato ad approfondire la conoscenza di Gesù Cristo attraverso le Scritture, attraverso la Parola, attraverso il Vangelo… Ci siamo resi conto che Gesù Cristo ha vinto la morte ed è morto per noi. Abbiamo conquistato la consapevolezza che deriva da una conoscenza approfondita di Lui: questo è il primo punto di partenza.
Il secondo punto, importante, è domandarsi cosa rappresenti Gesù Cristo per me; cosa ho a che fare io con Gesù Cristo e Gesù Cristo cosa ha a che fare con me; quale rapporto c’è fra me e Gesù; perché devo chiedere a Lui l’aiuto per andare avanti; perché devo avere fede in Lui che ha vinto la morte ed è risorto. Ecco, sto sintetizzando quello che per me è stato un lavoro di anni, un lavoro direi anche molto faticoso, come hanno fatto molti genitori qui presenti, cioè quello di rendersi conto prima di tutto chi è Gesù Cristo con la resurrezione e la sua vittoria sulla morte.
Su un pannello di Famiglie in Cammino è riportato un bellissimo quadro di Piero della Francesca in cui Cristo risorto è rappresentato mentre esce dalla tomba, vittorioso sulla morte. Ecco, questo è un elemento di sintesi.
Si tratta di un lungo percorso di fede che ci ha portato anche a guardare con fiducia chi ha altri figli - noi avevamo solo Leonardo morto ventidue anni fa – ed ad avere noi stessi fiducia per andare avanti, per ritornare a sorridere, per vedere la vita come una cosa positiva. E’ un percorso di fede che richiede un impegno costante: una frase del Vangelo di oggi afferma che la perseveranza ci porterà alla salvezza. Perseverare nella fede vuol dire avere pazienza, vuol dire fare passo dopo passo. Vuol dire avere alti e bassi, che ce ne sono sempre; vuol dire però mantenere la fiducia nel Signore, mantenere la fiducia che solo Lui, che è la Resurrezione e la Vita, ci può portare avanti, ci può aiutare a credere in Lui per arrivare nel luogo che Lui ci ha preparato, in cui potremo rivedere i nostri figli.
Don Giancarlo: C’è una precisazione che vorrei fare sull’intervento di Giorgio concernente le due piste pedagogiche e ascetiche che ha suggerito. Nella seconda ha tentato di rendere personale il rapporto con Cristo: quale rapporto, diceva, c’è fra Lui e me. La mia precisazione sta nell’indicare che, se lo si costruisce sulla conoscenza non autentica, è un rapporto formale. Quando invece si è di fronte alla conoscenza di una identità, allora la domanda è su come potrebbe diventare il rapporto
fra me e Lui. Non si tratta di un rapporto formale: formale vuol dire esteriore, vuol dire fondato sui sentiti dire, sui ricordi di quello che mi sono messo in mente, su quello che i luoghi comuni citano in continuazione, ma che non è vera conoscenza. Il rapporto formale porta a far passare per Bibbia, per teologia cattolica il relativismo interreligioso, tant’è vero che si tira in scena tutti e tutto: Budda, Averroè, Zaratustra, Confucio e chi più ne ha, più ne metta a seconda dell’erudizione
che possiede. La non conoscenza è questa. La conoscenza autentica (permettete un risvolto esistenziale) è quella che ciascuno di voi ha fatto dal giorno in cui, innamorata o innamorato, si è sentito dire da lui o da lei: ”Ci sto!”. La vera conoscenza è cominciata dopo questo “ci sto” e di conseguenza ha aperto ad un diverso, migliore e più vero rapporto di prima, quando la conoscenza era invece formale, superficiale, esterna.
Ripartire da Cristo - ringrazio chi l’ha messo in evidenza in alcuni interventi - vuol dire partire da Lui che c’è già. E’ qui, ma è da riconoscere ed è da conoscere approfondendo, coltivando la conoscenza che implica l’esperienza, perché il conoscere non proviene solo dal cervello. Normalmente e inizialmente è frutto della vita, è frutto dell’esperienza. Proprio perché hai vissuto delle esperienze di convivenza allora puoi rendertene conto quando ti fermi a riflettere criticamente, valutandole, cogliendone il positivo, l’ambiguo, il superficiale. E se hai conosciuto il bello e il vero, li trattieni e il resto lo lasci fluire, sotto i ponti dell’Arno come si dice. Guardate che è importante questo: quanto dico vale non solo per Famiglie in Cammino, vale per l’uomo. Ogni uomo. Soprattutto l’uomo a cui è stato dato di diventare discepolo.
Il discepolo non finirà più di conoscere e di seguire Gesù, maestro inesauribile. Vive di Lui, riparte sempre da Lui e riconduce tutto a Lui, anche i limiti, anche il peccato, anche le fragilità, direi soprattutto quelle, perché gravano sul nostro io come un’onta, mentre le cose belle non gravano sul nostro io, anzi vogliamo diventarne vetrina. Nessuno vorrebbe mettere in vetrina le sue magagne e giustamente. C’è una dignità, anche di fronte al marito o alla moglie, che deve produrre rispetto, discrezione: si deve conservare nell’intimo, nel segreto del proprio essere ciò che può fare dispiacere all’altro, ciò che può offendere l’altro.
Queste nostre fragilità, i nostri peccati, vengono perdonate da un Padre che ci ama e che in Cristo ha dato la vita per noi. Volevo rimarcare questo, perché è una cosa importante.
Anna (Busto Arsizio): Vorrei segnalare una frase sintetica che riassuma tutto il bellissimo intervento di don Giancarlo. Al Meeting di quest’anno c’era una mostra su sant’Agostino intitolata: “Si conosce bene solo ciò che si ama”. Credo che questa affermazione, estremamente sintetica, sia adattissima a riassumere ciò che don Giancarlo ci ha richiamato. Si conosce bene solo ciò che si ama e per amare bisogna chiaramente starci, bisogna dare tempo, bisogna dare rapporto, bisogna dare preghiera.
Nazareno (Tradate): Cercherò di approfondire, secondo la mia fede e la mia conoscenza, specialmente quanto è stato detto: ripartire da Cristo. Questo per me è vitale. Considerando le prove della vita, pretendere di riuscire a farcela da soli - lo sforzo che io compio nella vita è quello di non giudicare il mio prossimo, perché anch’io vedo in me tanta debolezza – è per me impossibile. Come potrei continuare la mia vita? Mi convinco sempre più che se io voglio essere forte e valoroso, devo rimettermi completamente nelle mani di Colui che mi ha creato, perché è in Lui che c’è la forza, la volontà, l’amore per ogni uomo. Un amore che è solo gioia senza croci.
Sì, sono fermamente convinto che Lui è tutto per me e per ognuno di noi. Ci ha fornito la prova
suprema con la morte di Cristo sulla croce: da lì ha acceso una fiamma che illumina ogni uomo. Da questo deduco che, se voglio essere un uomo leale e retto, devo rimettermi nelle sue mani e fare mie anche le parola di Maria quando ci dice: “ Fate quello che Lui vi dirà”. Io credo che questa sia la strada più giusta e concreta, anche se difficile come dice Scerry, molto difficile. Dobbiamo pregare
Dio con tutto noi stessi: “Signore in Te confidiamo e a Te ci affidiamo, con Te e per Te vogliamo essere anche nel dolore, luce per i nostri fratelli”.
Penso che tutti noi conosciamo la domanda di Gesù agli apostoli quando ha chiesto: “Voi chi dite che io sia?” e la risposta di Pietro, su cui dobbiamo meditare in ogni istante: “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente!”.
E’ questa risposta che mi spinge a parlare. Ma vorrei dire a Scerry un’altra cosa: quando è accaduta la mia disgrazia, io avevo tre figli, due erano gemelle. Una di questi faceva attività di volontariato e mentre svolgeva questa attività, improvvisamente, per un incidente d’auto, se ne è andata.
Questo è accaduto il 20 ottobre. Il 1 Novembre queste due mie figlie gemelle compivano gli anni. Ebbene, io le ho festeggiate tutte e due, perché per me non esiste la morte; per me c’è solo il passaggio da una vita all’altra. Tu, Scerry, puoi dire che sono un illuso, ma sono certo che questa è la verità. Devi credere a questo! Devi aggrapparti a Cristo che è morto sulla croce per noi e ci vuol bene, ci ama, ci sostiene: è lì che ti devi aggrappare.
Anzi, ti dirò di più. Di fronte a un figlio, a una figlia che ci ha lasciato, noi dobbiamo dire ogni giorno: “Grazie Signore che ce l’hai dato e per un lasso di tempo è stato in nostra compagnia e ci ha reso felici.” Ascoltami bene: se Lui è morto sulla croce è perché ci vuol bene, è perché ci ama. Certo, in questo momento sei abbattuta, non puoi fare di più. Io ti invito a pregare se puoi: nella preghiera trovi tanto conforto. Anch’io, come tutti noi, non riuscivo a non piangere. Vedi, io ti racconto la mia storia che è amara. Le prove della vita sono dure; umanamente non ce la facciano a superarle, però vado sempre verso quel pilastro centrale, che è rappresentato dalla croce di Cristo. Se è morto sulla croce per noi, vuol dire che esiste ed è con noi. Fidiamoci di Lui!
Don Giancarlo: Abbiamo avuto degli spunti illuminanti che, da angolature diverse, hanno come inciso sulla scorza dei cuori e ci hanno riproposto la necessità di ripartire da Cristo. E’ emerso come urgenza permanente di non dare per scontato la conoscenza di Gesù, perché Gesù è Dio e siccome vive nella contemporaneità, lo incontriamo tantissime volte in circostanze, in persone, in fatti, perché Lui è l’Evento che accade, che irrompe, che è portatore di verità, di certezze e di
speranze. Ecco, il lavoro da fare in questo Avvento è tenere il cuore aperto perché Lui viene, perché
Lui chiama, perché Lui ci fa visita, Lui passa. Non possiamo essere distratti, perché la parola distratto vuol dire che l’attenzione è spostata su interessi marginali e non su di Lui.
Ripartire da Cristo vuol dire ripartire da quella presenza in cui ho intravisto possibilità di bene e di promessa per me, senza distrarmi da altro, senza farmi distrarre da altro. In questa ottica abbiamo sentito inviti alla preghiera, ai rapporti interpersonali e tra di essi quelli da preferire non sono quelli
con cui sto meglio, nel senso di non avere problemi per le affinità temperamentali, psicologiche che ho. Occorre preferire i rapporti che mi fanno stare male, ma dentro un male che contiene la verità, perché se privilegio i rapporti con i quali sto meglio ma non succede mai nulla, si tratta di rapporti fasulli. Bisogna invece privilegiare quei rapporti che magari mi mettono in crisi in continuazione, mi pongono sempre domande laceranti, non mi danno tregua, perché mi mettono sempre alle corde, alle corde della verità, alle corde della pienezza, alle corde di Cristo. Allora su questa strada si può incontrare Colui che viene come la presenza che salva, il Liberatore, e non invece un festeggiato che non dice più niente a nessuno. E in questo senso, in occasione della benedizione natalizia, ho scritto ai miei parrocchiani una lettera che ha come titolo “Natale con o senza il Festeggiato ?” e come sottotitolo “Questione di libertà”.
Vi invito a proseguire nella meditazione del testo di Lepori e in particolare del capitolo che ha come titolo “Accogliere la vita”, da pagina 49 a pagina 62. Sono tredici paginette che nella prima parte potrebbero sconfortare perché sembrano riferite a chi deve ancora generare dei figli. Però, andando avanti, aiutano a capire che la questione è per tutti. Per chi i figli li ha già generati e li ha con sé o gli sono stati strappati e magari è già arrivato il momento dell’offerta, della consegna oppure sono ancora nella posizione della difesa e della recriminazione.
L’invito è accogliere la vita che c’è in noi, la vita che è negli altri attorno a noi. Vi prego di tener presente questa sottolineatura, perché la diamo sempre per scontata e quindi diventando formale diventa niente, perché quando le cose sono formali sono apparati di vetrina e di conseguenza si fanno discorsi che diventano parole al vento, ma non dicono più nulla, né a chi le pronuncia né a chi le ascolta. Stufano. Non per nulla le prediche di alcuni preti stufano, perché non vengono fuori dall’esperienza, da un vissuto, ma sono erudizioni teologiche, libresche che non incidono più.
Dobbiamo invece, come sottolinea Lepori, abate dell’abbazia cistercense di Hauterive, in Svizzera, guardare la vita, scoprire il vivere e tutte le condizioni in cui la vita ci ha posto, con la concezione che ha Dio del vivere e con lo sguardo e il cuore con cui Dio guarda la sua creatura, suo dono, perché il vivere anche per un istante è dono di Dio. Dove c’è vita c’è vicino Dio, perché la tentazione dell’uomo moderno non è quella di negare che la vita sia un dono, ma che la vita, una volta donata, è mia, è mia proprietà che devo gestire secondo i canoni, secondo le misure che piacciono a me. La vita è invece sempre dono, è sempre presenza di Dio e chiama alla vocazione, a rispondere a quello che nel disegno di Dio ti è stato donato.