25 agosto 2006 – Meeting di Rimini
Natale Colombo (Usmate). Un saluto particolare a chi è con noi per la prima volta. Da alcuni anni abbiamo quest’appuntamento al Meeting. Lo riteniamo importante perché ci dà la possibilità di incontrare delle persone che, come noi, vivono il dramma della perdita del figlio. Quest’occasione del Meeting ci favorisce perché ha un richiamo forte e, per chi ha vissuto l’esperienza in seno al Movimento, sprona maggiormente ad essere propositivi ed attenti al problema del dolore.
Oggi vogliamo riflettere sulla preghiera che recitiamo in comunione.
La nostra realtà è nata nel ’92, dall’esperienza di genitori che avevano perso il figlio e hanno riconosciuto il bisogno di condividere con altri il dolore. Da questo è nato il gruppo di Famiglie in Cammino. L’esperienza ha portato ad incontrarsi una volta il mese nella parrocchia di Busto Arsizio, dove opera don Giancarlo. In quest’occasione si mettono in comune le esperienze vissute nel mese, si lavora su un testo e sorgono così dibattiti e domande.
Don Giancarlo. Abbiamo un canto che è diventato la nostra sigla, è un canto brasiliano: poni tuos manos en la mano del Senor de Galilea. C’invita ad affidarci, ad allungare la mano e lasciare che il Signore, che è tutto e può tutto, la prenda nella sua. La seconda strofa dice: nel tuo cammino ti sei imbattuto nella nube dello smarrimento, metti i tuoi piedi nelle orme del suo passaggio, che Lui ha tracciato per te. E’ una traduzione poetica della verità dogmatica: “Io sono la via”.
Il canto continua invitando ad imparare ad avere sulle labbra le mie parole di vita e di verità, per esserne alimentato e sostenuto.
Abbiamo pensato di approfondire la preghiera che recitiamo assieme, perché molte volte le formule che diventano stereotipi, scivolano via, magari senza più lo stupore del primo impatto. O si ripetono senza avere la voglia di approfondirne il significato, lasciandosi provocare dal messaggio.
Reciteremo la preghiera con pacatezza meditativa nei confronti, non solo del Signore, ma di chi ci ha lasciato, che è qui con noi, nella logica della comunione dei Santi che lega il presente, che è precario, all’eterno definitivo. Chi già è stato accolto nelle braccia misericordiose, diventano zampilli che riversano sull’umanità e sulla Chiesa, che è il punto di consapevolezza più piena, quella sapienza che illumina, quel coraggio che dà speranza.
Se il cuore è ferito, non ha solo la componente affettiva di un legame che è sconvolto, c’è anche la componente razionale che perde la chiarezza e la semplicità di un percorso fino a quel momento tranquillo, per poi ritrovarsi smarriti e confusi. Possiamo liberamente esprimere le nostre domande o dubbi. Qui ci sono degli amici che desiderano aiutarci a guardare la vita in ciò che merita di essere considerata, perché possono fiorire risposte di conforto e di luce.
Anna Rimoldi (Busto A.). Mi piacerebbe approfondire alcuni significati di questa preghiera che recitiamo, ma che a volte ci sfugge nella sua profondità. Io e mio marito abbiamo una lunga consuetudine con una grossa domanda, all’interno della nostra vita. Per almeno quindici anni siamo stati davanti ad un disegno molto oscuro. Abbiamo desiderato per quindici anni avere dei figli e il desiderio non era mai stato compiuto. Dopo quindici anni abbiamo avuto una bambina, Maria Gabriella, che però è vissuta un brevissimo arco di tempo, cento giorni. Già dalla nascita ci era stato detto che non avrebbe potuto crescere e ci siamo trovati con un cuore devastato, ma anche con una ragione obnubilata. Una ragione che non aveva risposte. Non ci sono ragioni sufficientemente capaci di rispondere e placare il cuore davanti ad una tragedia, come allora ci appariva.
Nel tempo abbiamo ritrovato quella dimensione di fede, che pure ha fatto sempre parte della nostra vita. L’abbiamo recuperata nella dimensione più bella per noi. Abbiamo riscoperto Dio padre, che dopo tante insistenze ci aveva permesso di vivere l’esperienza della maternità e della paternità, facendo fiorire l’esistenza di nostra figlia. Sicuramente nella Sua mente è sempre stata presente, poi finalmente ci è stata concessa, nella sua fisicità, da abbracciare ed accudire. Una grossa gratitudine nei confronti del Signore per questa esperienza. Una gratitudine perché il sì che il Signore ha pronunciato nei confronti della nostra vita, siamo sicuri che è un sì continuo, che non ritira. Gabriella è una bambina che vive, è una parola che il Signore ha pronunciato per noi, una parola di vita, che sicuramente non è stata ritirata.
La preghiera di don Giussani ci ricorda continuamente questo, ci suggerisce una relazione continua con i nostri figli. Al di là d’ogni ragionevolezza legata al tempo e al luogo, che è il nostro modo d’essere e di vivere. Gabriella è una presenza intingibile ma comunque molto vera e reale. Lei vive sicuramente con noi, ma dimora stabilmente nel Signore, nel Mistero. Ci piacerebbe capire che familiarità esiste tra i nostri figli, che sono ormai nelle braccia del Padre, e il Mistero.
Don Giancarlo. Noi non sappiamo l’intensità di vita e di relazione che esistano nell’altra vita. Gesù che è il di là, l’eterno, e che ha voluto farci assaggiare in anticipo una primizia che avrebbe suscitato in noi la nostalgia della dimora da cui veniamo e il desiderio di essa, è venuto a svelarci qual è la vita dell’al di là. Soprattutto nel Vangelo di Giovanni, dal V al IX capitolo, fanno trasparire il tipo di relazione che Lui, Figlio, vive col Padre. E’ una relazione di dipendenza, ma non di sottomissione. Vive la dipendenza dell’uomo libero, del figlio che si sente amato e che vuole amare. Gesù si sente amato come l’Unico, l’Unigenito, che a sua volta genera una molteplicità di figli. Quelli che chiama amici e fratelli. “Voi siete miei amici perché io ho seminato e semino nel vostro cuore tutto quello che ho conosciuto e vivo nei confronti del Padre”Ci sono vari tipi di dipendenza. C’è la dipendenza costretta, che cova ribellioni.
C’è la dipendenza rassegnata. C’è la dipendenza di costrizione. Nel mondo ci sono ghetti dove le dipendenze sono costrette dai doveri. C’è la dipendenza che spiega la famigliarità di Gesù. “Io sono tra voi per farvi conoscere la comunione unica tra me e il Padre. Sono qui non per fare la mia volontà, ma per far conoscere il Suo amore. Quanto più l’amore investe, definisce e illumina il cuore, questi ha per contraccolpo una fioritura di maternità, paternità e filialità. Nella nostra vita viviamo questi tre aspetti, fisicamente e biologicamente. Viviamo però soprattutto questi tre aspetti come esperienza educativa e di amicizia. L’eros che diventa agape, che si trasforma e si declina in philia. L’amore che ha queste valenze che fanno scorgere qualcosa di più della familiarità. Quanto più impareremo a stare di fronte alla presenza del Signore, lasciandoci portare da essa, da quello che ci ha fatto vedere, ascoltare e continua a far echeggiare al nostro cuore, tanto più percepiremo, anche a livello contemplativo e mistico, qualcosa di ciò che è la familiarità che adesso possiamo solo presentire, desiderare e domandare.
Chi ha molti anni di matrimonio alle spalle sa che il desiderio fisico degli inizi, l’eros, si purifica e si trasforma nell’amore ablativo che è l’agape. Un amore che vive la dimensione della gratuità che cresce sempre di più. Si vivono esperienze che aprono spiragli su un di più che è promesso, e che alcuni, attraverso il carisma mistico, hanno sperimentato. Alcuni santi hanno scritto libri che permettono di intravedere qualcosa della familiarità col Mistero. “Quel mistero che tanto ci attira e ci affascina tutti”. Quel Mistero ha due parole che lo esprimono: comunione e familiarità. Non è il mistero che avvolge la vita nel buio, impedendo al di qui di vivere una relazione di partecipazione, di desiderio, di nostalgia, di domanda, ma la facilità perché c’è Cristo. “Io sono la resurrezione e la vita. Chi crede in me non morrà in eterno. Io sono la strada. Vado a prepararvi un posto, poi tornerò e vi prenderò con me perché ciascuno sia là dove c’è la totalità, la pienezza. L’infinito, che la ragione intravede come soglia invalicabile e vertiginosa, sarà fonte di beatitudine”.
Vivere la vita nel rischio e nella sfida di questa speranza, di questa certezza inizialmente sperimentata dà la spinta. L’aiuto che ci si dà all’interno di compagnie cristianamente impostate e guidate, dà un timbro all’esistenza e alle prove che hanno segnato, ferito, indelebilmente l’io. Dà una prospettiva dell’altro mondo che illumina questo mondo.
Elena. Otto anni fa è morto mio cugino, che per me era come un fratello, siamo stati sempre molto uniti. Sono venuta a quest’incontro perché vorrei parlare a mio zio della vostra realtà e di come riuscite a vivere questa situazione. Mio zio, prima della morte del figlio, non era molto credente. La risposta alla morte è stato credere di più.
Maria Vallini (Arcore). Recitando la preghiera mi soffermo sempre sulla parola pietà.
Don Giancarlo. Questa mattina venendo in fiera con Giovanni abbiamo visto un giovane steso a terra e vicino a lui un altro uomo. Pensando che potessero avere bisogno di aiuto, Giovanni si è avvicinato. Era un ubriaco, l’amico appariva chiaramente infastidito dalla situazione e non ha accettato nessun tipo di aiuto. Questo ci fa capire cosa sia o non sia la pietà. L’accorrere di curiosi sulla scenda di un incidente, non porta con sé la pietà. E’ solo curiosità un po’ macabra. C’è invece la pietà di chi si lascia chiamare in causa dall’incidente, dal dolore, dalla morte, dalla sofferenza, e si china su di essa, facendosene carico. La parola pietà si è però caricata di valenze ambigue e non sempre positive.
Nella preghiera è da leggere come pietas. Nell’alleanza tra il Mistero ed Abramo la pietas si è arricchita di contenuti di amore. La figura del Samaritano è emblematica e permette di capire chi siano stati i giudici, i profeti, i leviti. Uomini che facilitavano e alimentavano il rapporto tra il Mistero, alleato ma non ancora conosciuto, e l’uomo pellegrino. Gesù a fatto vedere cosa è la pietà parlando della misericordia. Non è solo andare incontro momentaneamente al bisognoso. E’ amore ablativo che dona la vita fino in fondo per l’altro, abbracciando l’altro. Non solo nell’aspetto epidermico e provvisorio del bisogno, ma abbracciando l’altro nella sua interezza: il destino o salvezza. I figli che sono nel Signore ci guardano con lo stesso amore sconfinato di misericordia che ha Cristo, di Colui in cui sei, in cui dimori. Solo chi arriva in quella dimora ne fa esperienza e poi la fa ricadere sul nostro cammino.
Raimonda Targa (Milano). La nostra preghiera dice: ”Con la stessa pietà e con lo stesso sguardo”. A volte i genitori ricordano degli screzi o dei malintesi con i propri figli eppure questi figli sono stati chiamati ad essere con il Signore. Queste mamme e questi papà come possono pensare che li stia guardando il figlio?
Don Giancarlo. Lo sguardo di Dio è il suo cuore, e il cuore di Dio è amore. La parola misericordia è innanzitutto il dono di sé, l’accoglienza del figlio che vive comunque, dovunque e sempre. Non dobbiamo pensare ad un merito o demerito. E’ il Padre buono della parabola. I figli possono avere delle ribellioni nel dovere che si carica di pretese. Sempre c’è la domanda cosa ho fatto di male perché Dio si riprendesse mio figlio con una malattia, in un incidente. Oppure hanno voluto porre fine al loro cammino umano perché lo sguardo del loro cuore non vedeva più la ragione per cui valesse la pena affrontare, nella lotta e nella fatica della speranza, quella prova o quella crisi. Lo sguardo di Dio è perdono. Il perdono è super dono. Il primo dono è il dono della vita, il secondo è la compagnia: non ti lascio solo, sarò con te fino alla fine, per questo non avere paura. Anche se hai sbagliato ti aspetto. E’ lo sguardo della pazienza, che poi recupera nel riabbraccio dell’amore che si chiama perdono.
C’è poi la misericordia, che è un amore la cui misura è di non avere misure. La misura dello sguardo di Dio è il per te, per la tua salvezza, sempre, se lo si vuole. Lo sguardo di Dio è l’amore smisurato, totale e totalizzante, che abbraccia tutto e sempre, nella globalità e nella specificità dei particolari. L’uomo è sempre messo di fronte allo sguardo commovente di Dio, nella sua libertà
Giovanni Rimoldi (Busto A.). Il tuo, don Giancarlo, è un inno alla speranza e alla misericordia. Un portale che si apre nella gloria. E’ un dono che incute stupore, meraviglia. Pensare che questo nostro figlio, dal punto di vista umano, andato perso, è ripreso nella gloria del Padre. Solo la fede è in grado di darci questa visione.
Testimonianza Abito a Rimini e ci siamo incontrati quattro anni fa. Era avvenuta la beatificazione di Alberto Marvelli che ho conosciuto fin da ragazzo. In questi ultimi mesi sto vivendo una condizione di malattia grave. Mi trovo a vivere dei giorni di gratitudine e serenità.. In questi giorni sento il limite del mio fisico, sento quanto mi pesa la rinuncia alle cose che avrei potuto fare e che non farò più. Devo manifestare anche gratitudine a mia moglie per come mi assiste e le premure che mi manifesta. Non avrei mai pensato di trovarmi in queste condizioni di sofferenza e allo stesso tempo di serenità. La pietà, la misericordia, il dono di cui si è parlato mi sono familiari e mi auguro che anche i miei amici, i miei figli, possano vivere questi giorni come un dono, in pienezza e gratitudine.
Natale Colombo (Usmate). La nostra preghiera dice: aiutaci a vivere con più verità la nostra vita e il nostro compito. Quello che abbiamo ascoltato da questa testimonianza è la conferma della preghiera. Si può vivere con più consapevolezza, nonostante il disagio della malattia, accettando ogni giorno come un dono. Che cosa è la verità della vita? E’ quanto l’esperienza e il cuore ci dicono, soprattutto nell’esperienza del dolore che insieme ci aiuta a dare e a conoscere di più.
Don Giancarlo. Celebrando questa mattina la S. Messa ho terminato l’omelia dicendo: “Siete dei privilegiati, non perché provati dalla perdita, ma perché la prova che avete affrontato, accettata e interpretata e amata con quello sguardo di amore, ha fatto maturare il cuore e ha spinto lo sguardo a cogliere profondità che non sono date a chi non fa certe esperienze e non passa attraverso certe prove”.
La fatica e il dolore non sono augurabili a nessuno, ma noi oggi possiamo dire a chi si è trovato immerso nella lotta che tutto coopera al bene di coloro che sentendosi amati da Dio, amano Dio. Nelle prove (Paolo nella lettera ai romani, capitolo VIII) usciamo più che vincitori. Siete privilegiati perché vincitori. Con tutti gli smarrimenti umani ma con il baricentro, la ragione del cuore nella Sua presenza che ha salvato tutto, così da affrontare la vita in pienezza. Il vincente è colui che sa la direzione della vita perché la ha riconosciuta, imparata e verificata, e la ha trovata conveniente. Questo è il centuplo che possiamo fruire adesso, su questa terra. E’ anche la nostra missione: portare la speranza nella società, nei luoghi in cui si vive.
Oggi vogliamo riflettere sulla preghiera che recitiamo in comunione.
La nostra realtà è nata nel ’92, dall’esperienza di genitori che avevano perso il figlio e hanno riconosciuto il bisogno di condividere con altri il dolore. Da questo è nato il gruppo di Famiglie in Cammino. L’esperienza ha portato ad incontrarsi una volta il mese nella parrocchia di Busto Arsizio, dove opera don Giancarlo. In quest’occasione si mettono in comune le esperienze vissute nel mese, si lavora su un testo e sorgono così dibattiti e domande.
Don Giancarlo. Abbiamo un canto che è diventato la nostra sigla, è un canto brasiliano: poni tuos manos en la mano del Senor de Galilea. C’invita ad affidarci, ad allungare la mano e lasciare che il Signore, che è tutto e può tutto, la prenda nella sua. La seconda strofa dice: nel tuo cammino ti sei imbattuto nella nube dello smarrimento, metti i tuoi piedi nelle orme del suo passaggio, che Lui ha tracciato per te. E’ una traduzione poetica della verità dogmatica: “Io sono la via”.
Il canto continua invitando ad imparare ad avere sulle labbra le mie parole di vita e di verità, per esserne alimentato e sostenuto.
Abbiamo pensato di approfondire la preghiera che recitiamo assieme, perché molte volte le formule che diventano stereotipi, scivolano via, magari senza più lo stupore del primo impatto. O si ripetono senza avere la voglia di approfondirne il significato, lasciandosi provocare dal messaggio.
Reciteremo la preghiera con pacatezza meditativa nei confronti, non solo del Signore, ma di chi ci ha lasciato, che è qui con noi, nella logica della comunione dei Santi che lega il presente, che è precario, all’eterno definitivo. Chi già è stato accolto nelle braccia misericordiose, diventano zampilli che riversano sull’umanità e sulla Chiesa, che è il punto di consapevolezza più piena, quella sapienza che illumina, quel coraggio che dà speranza.
Se il cuore è ferito, non ha solo la componente affettiva di un legame che è sconvolto, c’è anche la componente razionale che perde la chiarezza e la semplicità di un percorso fino a quel momento tranquillo, per poi ritrovarsi smarriti e confusi. Possiamo liberamente esprimere le nostre domande o dubbi. Qui ci sono degli amici che desiderano aiutarci a guardare la vita in ciò che merita di essere considerata, perché possono fiorire risposte di conforto e di luce.
Anna Rimoldi (Busto A.). Mi piacerebbe approfondire alcuni significati di questa preghiera che recitiamo, ma che a volte ci sfugge nella sua profondità. Io e mio marito abbiamo una lunga consuetudine con una grossa domanda, all’interno della nostra vita. Per almeno quindici anni siamo stati davanti ad un disegno molto oscuro. Abbiamo desiderato per quindici anni avere dei figli e il desiderio non era mai stato compiuto. Dopo quindici anni abbiamo avuto una bambina, Maria Gabriella, che però è vissuta un brevissimo arco di tempo, cento giorni. Già dalla nascita ci era stato detto che non avrebbe potuto crescere e ci siamo trovati con un cuore devastato, ma anche con una ragione obnubilata. Una ragione che non aveva risposte. Non ci sono ragioni sufficientemente capaci di rispondere e placare il cuore davanti ad una tragedia, come allora ci appariva.
Nel tempo abbiamo ritrovato quella dimensione di fede, che pure ha fatto sempre parte della nostra vita. L’abbiamo recuperata nella dimensione più bella per noi. Abbiamo riscoperto Dio padre, che dopo tante insistenze ci aveva permesso di vivere l’esperienza della maternità e della paternità, facendo fiorire l’esistenza di nostra figlia. Sicuramente nella Sua mente è sempre stata presente, poi finalmente ci è stata concessa, nella sua fisicità, da abbracciare ed accudire. Una grossa gratitudine nei confronti del Signore per questa esperienza. Una gratitudine perché il sì che il Signore ha pronunciato nei confronti della nostra vita, siamo sicuri che è un sì continuo, che non ritira. Gabriella è una bambina che vive, è una parola che il Signore ha pronunciato per noi, una parola di vita, che sicuramente non è stata ritirata.
La preghiera di don Giussani ci ricorda continuamente questo, ci suggerisce una relazione continua con i nostri figli. Al di là d’ogni ragionevolezza legata al tempo e al luogo, che è il nostro modo d’essere e di vivere. Gabriella è una presenza intingibile ma comunque molto vera e reale. Lei vive sicuramente con noi, ma dimora stabilmente nel Signore, nel Mistero. Ci piacerebbe capire che familiarità esiste tra i nostri figli, che sono ormai nelle braccia del Padre, e il Mistero.
Don Giancarlo. Noi non sappiamo l’intensità di vita e di relazione che esistano nell’altra vita. Gesù che è il di là, l’eterno, e che ha voluto farci assaggiare in anticipo una primizia che avrebbe suscitato in noi la nostalgia della dimora da cui veniamo e il desiderio di essa, è venuto a svelarci qual è la vita dell’al di là. Soprattutto nel Vangelo di Giovanni, dal V al IX capitolo, fanno trasparire il tipo di relazione che Lui, Figlio, vive col Padre. E’ una relazione di dipendenza, ma non di sottomissione. Vive la dipendenza dell’uomo libero, del figlio che si sente amato e che vuole amare. Gesù si sente amato come l’Unico, l’Unigenito, che a sua volta genera una molteplicità di figli. Quelli che chiama amici e fratelli. “Voi siete miei amici perché io ho seminato e semino nel vostro cuore tutto quello che ho conosciuto e vivo nei confronti del Padre”Ci sono vari tipi di dipendenza. C’è la dipendenza costretta, che cova ribellioni.
C’è la dipendenza rassegnata. C’è la dipendenza di costrizione. Nel mondo ci sono ghetti dove le dipendenze sono costrette dai doveri. C’è la dipendenza che spiega la famigliarità di Gesù. “Io sono tra voi per farvi conoscere la comunione unica tra me e il Padre. Sono qui non per fare la mia volontà, ma per far conoscere il Suo amore. Quanto più l’amore investe, definisce e illumina il cuore, questi ha per contraccolpo una fioritura di maternità, paternità e filialità. Nella nostra vita viviamo questi tre aspetti, fisicamente e biologicamente. Viviamo però soprattutto questi tre aspetti come esperienza educativa e di amicizia. L’eros che diventa agape, che si trasforma e si declina in philia. L’amore che ha queste valenze che fanno scorgere qualcosa di più della familiarità. Quanto più impareremo a stare di fronte alla presenza del Signore, lasciandoci portare da essa, da quello che ci ha fatto vedere, ascoltare e continua a far echeggiare al nostro cuore, tanto più percepiremo, anche a livello contemplativo e mistico, qualcosa di ciò che è la familiarità che adesso possiamo solo presentire, desiderare e domandare.
Chi ha molti anni di matrimonio alle spalle sa che il desiderio fisico degli inizi, l’eros, si purifica e si trasforma nell’amore ablativo che è l’agape. Un amore che vive la dimensione della gratuità che cresce sempre di più. Si vivono esperienze che aprono spiragli su un di più che è promesso, e che alcuni, attraverso il carisma mistico, hanno sperimentato. Alcuni santi hanno scritto libri che permettono di intravedere qualcosa della familiarità col Mistero. “Quel mistero che tanto ci attira e ci affascina tutti”. Quel Mistero ha due parole che lo esprimono: comunione e familiarità. Non è il mistero che avvolge la vita nel buio, impedendo al di qui di vivere una relazione di partecipazione, di desiderio, di nostalgia, di domanda, ma la facilità perché c’è Cristo. “Io sono la resurrezione e la vita. Chi crede in me non morrà in eterno. Io sono la strada. Vado a prepararvi un posto, poi tornerò e vi prenderò con me perché ciascuno sia là dove c’è la totalità, la pienezza. L’infinito, che la ragione intravede come soglia invalicabile e vertiginosa, sarà fonte di beatitudine”.
Vivere la vita nel rischio e nella sfida di questa speranza, di questa certezza inizialmente sperimentata dà la spinta. L’aiuto che ci si dà all’interno di compagnie cristianamente impostate e guidate, dà un timbro all’esistenza e alle prove che hanno segnato, ferito, indelebilmente l’io. Dà una prospettiva dell’altro mondo che illumina questo mondo.
Elena. Otto anni fa è morto mio cugino, che per me era come un fratello, siamo stati sempre molto uniti. Sono venuta a quest’incontro perché vorrei parlare a mio zio della vostra realtà e di come riuscite a vivere questa situazione. Mio zio, prima della morte del figlio, non era molto credente. La risposta alla morte è stato credere di più.
Maria Vallini (Arcore). Recitando la preghiera mi soffermo sempre sulla parola pietà.
Don Giancarlo. Questa mattina venendo in fiera con Giovanni abbiamo visto un giovane steso a terra e vicino a lui un altro uomo. Pensando che potessero avere bisogno di aiuto, Giovanni si è avvicinato. Era un ubriaco, l’amico appariva chiaramente infastidito dalla situazione e non ha accettato nessun tipo di aiuto. Questo ci fa capire cosa sia o non sia la pietà. L’accorrere di curiosi sulla scenda di un incidente, non porta con sé la pietà. E’ solo curiosità un po’ macabra. C’è invece la pietà di chi si lascia chiamare in causa dall’incidente, dal dolore, dalla morte, dalla sofferenza, e si china su di essa, facendosene carico. La parola pietà si è però caricata di valenze ambigue e non sempre positive.
Nella preghiera è da leggere come pietas. Nell’alleanza tra il Mistero ed Abramo la pietas si è arricchita di contenuti di amore. La figura del Samaritano è emblematica e permette di capire chi siano stati i giudici, i profeti, i leviti. Uomini che facilitavano e alimentavano il rapporto tra il Mistero, alleato ma non ancora conosciuto, e l’uomo pellegrino. Gesù a fatto vedere cosa è la pietà parlando della misericordia. Non è solo andare incontro momentaneamente al bisognoso. E’ amore ablativo che dona la vita fino in fondo per l’altro, abbracciando l’altro. Non solo nell’aspetto epidermico e provvisorio del bisogno, ma abbracciando l’altro nella sua interezza: il destino o salvezza. I figli che sono nel Signore ci guardano con lo stesso amore sconfinato di misericordia che ha Cristo, di Colui in cui sei, in cui dimori. Solo chi arriva in quella dimora ne fa esperienza e poi la fa ricadere sul nostro cammino.
Raimonda Targa (Milano). La nostra preghiera dice: ”Con la stessa pietà e con lo stesso sguardo”. A volte i genitori ricordano degli screzi o dei malintesi con i propri figli eppure questi figli sono stati chiamati ad essere con il Signore. Queste mamme e questi papà come possono pensare che li stia guardando il figlio?
Don Giancarlo. Lo sguardo di Dio è il suo cuore, e il cuore di Dio è amore. La parola misericordia è innanzitutto il dono di sé, l’accoglienza del figlio che vive comunque, dovunque e sempre. Non dobbiamo pensare ad un merito o demerito. E’ il Padre buono della parabola. I figli possono avere delle ribellioni nel dovere che si carica di pretese. Sempre c’è la domanda cosa ho fatto di male perché Dio si riprendesse mio figlio con una malattia, in un incidente. Oppure hanno voluto porre fine al loro cammino umano perché lo sguardo del loro cuore non vedeva più la ragione per cui valesse la pena affrontare, nella lotta e nella fatica della speranza, quella prova o quella crisi. Lo sguardo di Dio è perdono. Il perdono è super dono. Il primo dono è il dono della vita, il secondo è la compagnia: non ti lascio solo, sarò con te fino alla fine, per questo non avere paura. Anche se hai sbagliato ti aspetto. E’ lo sguardo della pazienza, che poi recupera nel riabbraccio dell’amore che si chiama perdono.
C’è poi la misericordia, che è un amore la cui misura è di non avere misure. La misura dello sguardo di Dio è il per te, per la tua salvezza, sempre, se lo si vuole. Lo sguardo di Dio è l’amore smisurato, totale e totalizzante, che abbraccia tutto e sempre, nella globalità e nella specificità dei particolari. L’uomo è sempre messo di fronte allo sguardo commovente di Dio, nella sua libertà
Giovanni Rimoldi (Busto A.). Il tuo, don Giancarlo, è un inno alla speranza e alla misericordia. Un portale che si apre nella gloria. E’ un dono che incute stupore, meraviglia. Pensare che questo nostro figlio, dal punto di vista umano, andato perso, è ripreso nella gloria del Padre. Solo la fede è in grado di darci questa visione.
Testimonianza Abito a Rimini e ci siamo incontrati quattro anni fa. Era avvenuta la beatificazione di Alberto Marvelli che ho conosciuto fin da ragazzo. In questi ultimi mesi sto vivendo una condizione di malattia grave. Mi trovo a vivere dei giorni di gratitudine e serenità.. In questi giorni sento il limite del mio fisico, sento quanto mi pesa la rinuncia alle cose che avrei potuto fare e che non farò più. Devo manifestare anche gratitudine a mia moglie per come mi assiste e le premure che mi manifesta. Non avrei mai pensato di trovarmi in queste condizioni di sofferenza e allo stesso tempo di serenità. La pietà, la misericordia, il dono di cui si è parlato mi sono familiari e mi auguro che anche i miei amici, i miei figli, possano vivere questi giorni come un dono, in pienezza e gratitudine.
Natale Colombo (Usmate). La nostra preghiera dice: aiutaci a vivere con più verità la nostra vita e il nostro compito. Quello che abbiamo ascoltato da questa testimonianza è la conferma della preghiera. Si può vivere con più consapevolezza, nonostante il disagio della malattia, accettando ogni giorno come un dono. Che cosa è la verità della vita? E’ quanto l’esperienza e il cuore ci dicono, soprattutto nell’esperienza del dolore che insieme ci aiuta a dare e a conoscere di più.
Don Giancarlo. Celebrando questa mattina la S. Messa ho terminato l’omelia dicendo: “Siete dei privilegiati, non perché provati dalla perdita, ma perché la prova che avete affrontato, accettata e interpretata e amata con quello sguardo di amore, ha fatto maturare il cuore e ha spinto lo sguardo a cogliere profondità che non sono date a chi non fa certe esperienze e non passa attraverso certe prove”.
La fatica e il dolore non sono augurabili a nessuno, ma noi oggi possiamo dire a chi si è trovato immerso nella lotta che tutto coopera al bene di coloro che sentendosi amati da Dio, amano Dio. Nelle prove (Paolo nella lettera ai romani, capitolo VIII) usciamo più che vincitori. Siete privilegiati perché vincitori. Con tutti gli smarrimenti umani ma con il baricentro, la ragione del cuore nella Sua presenza che ha salvato tutto, così da affrontare la vita in pienezza. Il vincente è colui che sa la direzione della vita perché la ha riconosciuta, imparata e verificata, e la ha trovata conveniente. Questo è il centuplo che possiamo fruire adesso, su questa terra. E’ anche la nostra missione: portare la speranza nella società, nei luoghi in cui si vive.