Incontro 18/03/2012

Stampa

Milano, 18 marzo 2012

 

 

INCONTRO CON DON EDO, MISSIONARIO IN UGANDA

 

“Ho sposato la Chiesa di Cristo, sono diventato prete nella Diocesi di Gulu e io obbedisco al vescovo che rappresenta Cristo in questa Chiesa. Obbedire è più semplice, come diceva Claudel.”

 

 

DON GIANCARLO:  In attesa dell’arrivo di don Edo, inizio introducendo il primo capitolo del testo  che stiamo meditando “La casa, la terra, gli amici” di don Massimo Camisasca. Inizierei con queste domande: “Di che cosa c’è bisogno oggi perché questo presente così critico possa diventare un’occasione di crescita e non di involuzione o di puro lamento? Di che cosa c’è bisogno nel presente perché il nostro Io cresca in verità, in libertà, in intraprendenza il cui effetto si ripercuota positivamente su noi stessi e poi su tutta la realtà, dando un contributo a quello che noi chiamiamo bene comune?”.

 

Le prime pagine sottolineano che il  momento storico che stiamo vivendo è un momento di tramonto e di evoluzione, da alcuni storici paragonabile all’epoca del tramonto dell’Impero romano. Quando si parla di Chiesa, non bisogna però dimenticare che cosa sia la Chiesa: non si può guardarla e relegarla a un settore più o meno rilevante della storia civile o della storia profana. E’ di tutt’altra specie: la storia della Chiesa non la fanno innanzitutto gli uomini, come invece hanno la presunzione di fare la storia civile. Nella storia della Chiesa, che è il prolungarsi nel tempo di Cristo Risorto, dato che essa è il Suo corpo vivo in azione, l’attore principale è lo Spirito Santo. Dentro la Chiesa c’è comunque sempre bisogno di riforme, ma con un occhio particolarmente acuto.

 

 

 

 

 

Oggi è in atto una nuova riforma che è la rievangelizzazione dell’ Occidente, perché siamo precipitati in un neo-paganesimo che  non è religioso, mentre il paganesimo della prima evangelizzazione cristiana lo era. Oggi purtroppo il neo-paganesimo è ateo, anzi idolatra e soprattutto idolatra del vuoto, del niente: si teorizza il nichilismo. La nuova evangelizzazione vuole ridare un’anima, una fibra, un impeto al cuore dei cristiani perché abbiano la libertà, l’amore, il coraggio di offrire agganci e contributi a tutti, per far capire che c’è bisogno di Dio, del Dio rivelatosi in Gesù.

 

Una presenza incontrabile e sperimentabile nel volto e nei tratti straordinari dell’umano convertito, dell’umano che ha fatto l’incontro con Lui.  Ma mentre nella società civile, tante volte e in certe ideologie, si è pensato di portare riforme attraverso le rivoluzioni, dentro la Chiesa non si parla di rivoluzioni ma di riforme. Nella rivoluzione la tendenza è quella di rimuovere prima il passato, fare un deserto e su di esso costruire la novità di cui qualcuno ha la coscienza,  o la pretesa, di essere profeta realizzatore. Nella riforma invece, e questo è particolarmente evidente nella Chiesa, su una radice che rimane immutabile si innestano le fioriture dei frutti che possono diventare nuove  tradizioni o  regole  di tipo rituale, di tipo morale.

 

Camisasca chiedendosi quali siano i fattori costitutivi della Chiesa su cui ipotizzare una riforma, afferma che  la Chiesa, apparsa a Gerusalemme nel periodo degli apostoli, era per prima cosa una Ecclesia, termine greco che vuol dire comunità messa insieme,convocata dallo Spirito e secondariamente  una comunità con al suo interno un’autorità, che ha trovato in Pietro per volere di Gesù l’espressione concreta,  divenuto a sua volta primo vescovo di Roma. Il primato di Pietro  è garanzia e fondamento di uno sviluppo nella verità. La Chiesa è quindi una comunità guidata, abitata, mossa continuamente dallo Spirito Santo. Camisasca prende come riferimenti due momenti particolari: quello fondativo della comunità di Gerusalemme, la comunità degli apostoli, e quello di San Benedetto che ha dato uno slancio e un rinnovamento al cristianesimo che hanno investito  l’Europa e poi il mondo intero.

 

Di San Benedetto si mette in evidenza la formulazione che assume l’Ecclesia, cioè la comunità guidata, abitata e  garantita dallo Spirito, che si chiama monastero. E’ nel monastero, è nell’abbazia dove vive l’autorità dell’abate, che si incarna la figura di Cristo, che si genera un luogo di umanità nuova. Attorno ai monaci, che vivono l’esperienza di comunione e di obbedienza allo Spirito e che hanno come regola il cercare Dio, dar lode a Lui, nascono forme di vita, villaggi e poi città ricche di ciò che sensibilmente, socialmente, essi  hanno inventato per rispondere ai bisogni degli uomini. Papa Benedetto XVI nei suoi interventi parla ripetutamente dell’urgenza per l’oggi di minoranze creative, simili ai monasteri benedettini, che rigenerino sia il tessuto ecclesiale sia quello sociale.

 

All’interno di quella che viene oggi sociologicamente definita  una “società liquida” Camisasca parla di un altro fenomeno di cui è importante prendere coscienza critica: la preminenza nell’oggi dell’individuo sulla persona, quindi dell’individualismo sul personale. Qual è la diversità fra individuo e persona? L’individuo si concepisce come soggetto unico non in relazione, mentre la persona è verticalmente relazione ad Altro da sé, di cui è immagine, e orizzontalmente con altri diversi da sé, ma complementari a sé. In questa preminenza dell’individuo, assistiamo invece allo sprigionarsi di atteggiamenti e di costumi individualistici che difendono a spada tratta i diritti individuali, soggettivi  in rapporto alla legge naturale che non viene più riconosciuta.

 

L’individualismo è sempre caratterizzato da un egocentrismo che può diventare egoismo e fonte di sospetto. Mai come oggi, con amarezza, vediamo l’imbarbarirsi delle relazioni. L’altra conseguenza è lo scontro fra soggettività e oggettività. Le esigenze, i desideri oggettivi strutturali, ontologici, tipici della natura umana, vengono combattuti, irrisi o calpestati, perché è l’Io singolo, l’Io soggettivo che deve affermarsi come arbitro, artefice, giudice di tutto. Camisasca, in riferimento alla comunità apostolica e alla scelta del metodo di San Benedetto, sottolinea l’urgenza che dentro queste comunità, la soggettività di ciascuno ricupera coscienza, consistenza, identità, coraggio, se è aperta al Tu di Dio in Cristo.

  

Accogliamo ora don Edo, un prete milanese che da quarant’anni vive in Uganda dove è incardinato nella diocesi di Gulu. Negli ultimi decenni il Vescovo gli ha dato l’ingrato incarico di fare l’economo in un Paese che per ventitré anni, dal 1986, è stato travagliato dalla  guerra. Io gli ho chiesto di dirci qualcosa sulla sua vita e sulla sua opera, avendo incontrato tragedie, drammi, sofferenze e bisogni immensi, sicuro che troverà in noi un uditorio particolarmente attento e sensibile a tutto quel fenomeno che si raccoglie sotto la voce dolore o esperienza di prova.

 

DOMANDA:  Come vi siete posti voi cristiani e voi preti, nel servizio che stai facendo, in quei ventitré anni di guerra, con tutto quello che avete vissuto?

 

DON EDO: Sono stati anni di forzata inattività, perché la guerra era fatta in modo da impedire gli spostamenti o da renderli  molto pericolosi. Per  percorrere 100 chilometri, che sono la distanza media fra una parrocchia e l’altra, uno doveva prima “mettere l’orecchio a terra” per tre o quattro giorni per essere sicuro che non ci fossero passaggi di truppe o possibilità di scontri, poi andarsi a cercare una tanica di benzina a sufficienza per fare questi cento chilometri e per tornare, e poi mettersi in strada. Dopo di che poteva capitare di restare a piedi perché ti bucavano le ruote della macchina o più semplicemente  te la portavano via per strada. La difficoltà creata dalla mancanza di spostamenti era da una parte una difficoltà pastorale, nel senso che non era possibile raggiungere la maggior parte delle comunità, ma dall’altra era anche isolante, perché impediva di vedere i confratelli o qualche amico. Per esempio una delle “prodezze” dei ribelli, per dimostrare al governo che loro erano in grado di disturbare l’attività normale, è stata quella di impedire che ci si spostasse il venerdì: in quel giorno le strade dovevano rimanere vuote.

 

DOMANDA: Dato che la guerra, per quello che io so, era guerra civile, frutto di bande armate che razziavano, distruggevano e quindi suscitavano paura, terrore tra la gente, come avete fatto nelle missioni?  Come avete cercato di condividere, di sostenere e di illuminare questa paura con tutto quello che comporta: la perdita di case, i campi profughi, l’abbandono dell’agricoltura, l’impossibilità  di avere i ritmi della vita sacramentale …?

 

DON EDO:  Hai descritto bene, hai messo a fuoco tutta una lista di difficoltà create dalla guerra. C’era molta insicurezza, perché su qualsiasi strada ad un certo punto un guerrigliero poteva saltare  fuori con il mitra e sparare o bruciare la macchina per dimostrare che le truppe governative non proteggevano il territorio, ormai nelle mani dei ribelli. Fortunatamente la maggior parte del mio lavoro durante la guerra l’ho fatto da Kampala, che è la capitale e che si trova al sud. Era un lavoro logistico, utile a procurare l’indispensabile per la sopravvivenza degli altri; ultimamente  mi è stato chiesto di creare a Kampala un ostello per i preti e per i vescovi del Nord, di passaggio di lì. La caratteristica più comune della guerra, a parte i danni materiali, è il sentirsi come il  popolo ebreo nel deserto: senza certezze, senza più la  possibilità di pianificare. Tuttavia questa incertezza la considero anche un dono, perché ti costringe a fidarti del buon Dio e non del prevedibile.

 

DOMANDA:  E i cristiani?

 

DON EDO: I cristiani erano praticamente sfollati, dopo i primi tre anni hanno dovuto lasciare i loro villaggi, le loro case e si sono ritirati nei campi profughi dove sicuramente non mancavano i generi essenziali di consumo: ma, altrettanto sicuramente, non potevano essere umanamente contenti di come se li procuravano. Nel campo profughi, che è una tendopoli con  cinquemila, diecimila, anche sessantamila abitanti, tutti a ridosso l’uno dell’altro,  arriva il camion delle Nazioni Unite a distribuire il cibo. Un padre di famiglia che  non ha coltivato la terra neanche un po’ per dieci, per quindici anni, come si presenta ai propri figli dando a loro da mangiare il frutto del mercato nero, fatto sulle razioni di cibo ottenute dall’Onu? E’ una esperienza troppo umiliante. La gente ha vissuto così per diciotto dei ventitré anni della guerra.  L’unico che riusciva sempre a raggiungere i campi era il vescovo: lo lasciavano passare, anche perché è assolutamente bravo, intelligente e generoso e non si fermava di fronte alle difficoltà. Arrivava, celebrava la Messa nel campo profughi e infondeva un minimo di speranza: un giorno o l’altro questa guerra sarebbe finita. Si è dedicato moltissimo, anche a fare da mediatore per le trattative di pace.

 

DOMANDA:  Quale era il rapporto fra di voi sacerdoti? Vi lasciavano svolgere il vostro ministero?

 

DON EDO:  Come ho già detto, lo svolgersi del ministero era difficile. Non c’era la possibilità di spostarsi e raggiungere le comunità isolate, e lì non c’era niente da fare anche perché quelle poche volte che si riusciva  a raggiungere qualche comunità, magari bisognava lasciare lì l’auto e fuggire a gambe levate nel bosco per poi farsi un po’ di chilometri con calma per ritrovare un posto dove poter mangiare e lavarsi.

 

DOMANDA:  Nella vostra attività di missionari riuscite a coinvolgere la popolazione o fate fatica?

 

DON EDO:  Si fa meno fatica che in Italia. Durante la guerra  la gente era talmente costretta a non avere notizie salvo che per sentito dire, che l’arrivo della buona notizia di Gesù Cristo vicino a loro era un dono enorme. Adesso c’è  la pace, ma non in tutto l’Uganda. Quando è stato raggiunto l’accordo, il capo dei ribelli non è venuto a firmare: siccome è accusato di delitti contro l’umanità e rischia di subire una condanna dal Tribunale internazionale dell’Aja,  non fidandosi dei lasciapassare, è fuggito.  Adesso si trova a tremila chilometri  dalla nostra missione, ad ovest dell’Uganda, dove continua a terrorizzare la popolazione, catturando ragazzi e ragazze per irretirli, obbligandoli a diventare soldati o schiave degli ufficiali.

 

DOMANDA: Non ti è mai passato per la mente di “mollare”, a motivo delle molte difficoltà che hai incontrato?  Qual è il motivo che ti permette di rimanere?

 

DON EDO:  Secondo me il motivo è molto semplice: ho sposato la Chiesa di Cristo, sono diventato prete nella Diocesi di Gulu e io obbedisco al vescovo che rappresenta Cristo in questa Chiesa. Obbedire è più semplice, come diceva Claudel.

 

DOMANDA:  Perché sono così sparse le comunità cristiane nella missione?

 

DON EDO: Perché innanzitutto vi è tanta distanza da percorrere e in secondo luogo non c’è un numero sufficiente di preti per motivare la nascita di altre  parrocchie. Vicino alle due città principali della mia diocesi, Gulu e Kindu, stanno ora sorgendo delle parrocchie più piccole, più simili come ampiezza  al numero di cristiani del mondo occidentale. Da noi mancano comunque sacerdoti: in Uganda ci possono essere parrocchie molto vaste, lunghe una settantina di chilometri e larghe una quarantina.

 

DOMANDA:  Ci sono ragazzi che studiano in seminario e qual è in genere il grado di istruzione in Uganda?

 

DON EDO:  Sì, ora vi sono ragazzi nei seminari.  L’Uganda in genere è un paese, rispetto al resto dell’Africa, molto istruito, e ciò è dovuto anche alla densità della popolazione.  Le scuole elementari esistenti  non sono  lontane più di sei chilometri dalle abitazioni del bambino più sfavorito: un percorso che, a piedi nudi (si cammina meglio!), può essere facilmente effettuato ogni giorno.

 

DOMANDA:  So che in questo Stato è diminuita la malattia dell’Aids in modo sensibile. Conferma?

 

DON EDO:  Sì, e questo è frutto di una saggia politica voluta dal Presidente e dal suo governo. Tra le persone che vengono da me a Kampala vi sono in genere persone sfollate dal nord, che hanno tanto di tessera che certifica che prendono le medicine con regolarità: alla fine del mese hanno un punto di raccolta dove le medicine contro l’Aids vengono dosate per il mese seguente. Ciascuno si può rifornire gratuitamente con una distribuzione pagata dagli Stati Uniti al Governo.  A fianco della distribuzione delle medicine c’è l’educazione presso tutte le scuole, tutti gli ospedali e presso tutti i posti di ritrovo dove vi sono pareti tappezzate di istruzioni. Chi va a scuola ha tutti i buoni motivi per smettere con la promiscuità, causa prima dell’Aids. Dal 1990 al 2005 i dati parlano di dimezzamento di questa malattia, peraltro più diffusa nei luoghi della guerra. La prevenzione dell’Aids non è certamente il preservativo, ma l’educazione: di questo è consapevole il Capo dello Stato.

 

DOMANDA:  Cosa succede nella società ugandese quando  ci sono dei giovani che muoiono? Danno una risposta di fede?

 

DON EDO:  Sicuramente anche lì ci sono dei cristiani che hanno una visione di fede, ma non sono forse sempre presenti a sufficienza per la mentalità tradizionale pagana, che risolve il problema in altro modo. Ci sono due funerali per ogni morto: quello di seppellimento e quello di sei mesi dopo quando si fa una grande festa per tutti i parenti che vengono da lontano e discutono su chi è stato causa della morte, magari un antenato che non si era comportato abbastanza bene … Questa è la tradizione pagana; i cristiani aiutano gli altri ad affrontare, a capire il senso cristiano della morte. E’ importante l’istruzione, a cui i cristiani, cattolici e protestanti, hanno dato un contributo determinante con le loro scuole.

 

DOMANDA:  C’è qualcosa che avrebbe voluto fare in questi anni e che non è riuscito a fare? In ventitré anni di guerra non è sempre possibile operare bene.

 

DON EDO:  Diventare un po’ più bravo …  e poi non sono riuscito a vedere delle realizzazioni permanenti. Mi è capitato molte volte di procurare i soldi per fare una cosa ben fatta e di rendermi conto, appena giunto, che sarebbe riuscita ben fatta al 70%. Avrei tanto desiderato che la pace avvenisse prima, ma non c’è niente di cui mi sia reso conto di non aver fatto, mentre era nei miei poteri farlo.

 

DOMANDA:  Ho notato che le multinazionali in Africa tendono ad accaparrarsi il terreno espropriandolo alla gente locale e  allontanandola. Capita anche in Uganda?

 

DON EDO:  Non mi risulta in Uganda. Più che di multinazionali si può parlare di ricchi che stanno diventando latifondisti in quel modo. Il  problema è che la terra è demaniale ed è comune: appartiene al governo. Nel governo ci sono però anche delle persone meno oneste che firmano dei contratti di vendita anche se non hanno il diritto di farlo. Lo spazio acquistato, sia pure illegalmente, viene recintato e la gente, non potendolo coltivare, è costretta ad andare via dai luoghi dove è  vissuta.

 

DOMANDA:  Lei ci ha detto che le opere risultano realizzate al 70%, anche nel caso della costruzione di un ospedale o di una chiesa?

 

DON EDO:  Io cerco di portare a compimento l’opera che inizio, almeno fino a quando ne ho i soldi. Il mio compito è quello dell’economo della diocesi:  se un anno il vescovo mi chiede, ad esempio, di procurare fondi per avere i mezzi di trasporto per i preti, allora io cerco fondi solo per comprare dieci o dodici macchine usate da consegnare ai sacerdoti.

 

DOMANDA:  Lei ha un rapporto con le persone cristiane della sua parrocchia?

 

DON EDO:  Quando ero parroco ce l’avevo, adesso non ho una parrocchia. Faccio l’economo. Dove sono non posso avere una parrocchia perché parlano un’altra lingua. In Uganda si parlano 38 lingue. Io ne ho imparata una, ma …. si parlano 38 lingue locali e si celebra la Messa in dodici lingue diverse.  Ciò vuol dire che dodici lingue hanno la Bibbia e il Messale tradotti ufficialmente e approvati. L’’inglese rimane comunque la lingua nazionale.

 

DOMANDA:  Ci sono gruppi di Movimenti cristiani, qual è quello di Comunione e Liberazione?

 

DON EDO Sì, ci sono. Di fatto lavorano in parallelo con progetti loro. Hanno ad esempio progetti per rendere più vivibile o più igienica la vita nei campi profughi; anche questo è  importante. Lavoriamo tutti in parallelo, ma tutti lavoriamo per il bene della gente, lavoriamo per il buon Dio. Chi collabora e lavora all’interno della Diocesi trova nel  vescovo il punto di coordinamento.

 

L’Assemblea termina con Don Edo che recita un brano di Vangelo e il Padre nostro in dialetto milanese, dato che è  anche un bravo poeta, che ha pubblicato diverse opere in dialetto