Milano 5 giugno 2011
COME FACCIO AD AVERE SPERANZA?
Trasformare il presente drammatico o confuso in un Evento dove il Tu di Dio possa portare chiarezza.
DON GIANCARLO: Per che cosa vale la pena di stare al mondo? Molto spesso questa domanda viene censurata, ci accontentiamo di rispondere ai bisogni più emergenti, più urgenti o a quelli che vanno per la maggiore. Che non sono sbagliati: il bisogno di avere una casa, un lavoro, degli amici, un matrimonio che funzioni bene, soldi per affrontare le emergenze … Ma questa domanda esistenziale arriva in modo brutale, quando siamo davanti alle prove che ci interpellano nel profondo del nostro essere. La domanda che ne segue è stringente: e adesso cosa faccio? A che cosa ancoro la speranza?
Di fronte a drammi umanamente irrisolti, come quello della perdita di un figlio, di fronte ai perché inevasi, chiediamo la grazia dello Spirito perché ci illumini. Riprendo dalla preghiera in forma di inno che abbiamo cantato, alcune espressioni. I nostri sensi illumina, Tu che sei il fervore della verità. Questo fervore della verità porta al significato profondo, autentico della nostra vita. Infondilo nei nostri cuori; portaci una pace che ci rassereni con Te. Con Te vogliamo vincere il pericolo della morte, cioè il pericolo del tramonto, del venir meno, dell’inaridirsi del nostro io. Mandaci i sette doni: le nostre labbra, anche se in modo trepido, possano attingere in Te la vera salvezza.
CATERINA (Busto Arsizio): Non capisco …
DON GIANCARLO: Di fronte al dramma della morte della propria figlia e ai perché irrisolti che martellano la tua mente, nessuno è in grado di dare risposte umanamente soddisfacenti. Siamo di fronte al mistero. Contro la disperazione, che è perdita della speranza, è necessario vivere in una prospettiva più grande, che è quella della fede, per ricominciare a vivere in modo ragionevole: non per fuga nella religione, intesa come oppio dei popoli, ma per una scelta ragionevole e libera che ti porti ad affidarti a Dio e ad invocarlo: “Io non capisco, non potrei capire. A Te che sei tutto, che sei sapiente, sei amore, affido mia figlia. Manda sul mio cammino conforto e illuminazione”. Sono due dei sette doni dello Spirito.
Non dimenticare la Pietà di Michelangelo, che era raffigurata anche nella nostra Chiesa. Sul calvario accanto a Gesù che muore in croce, c’era la madre Maria e il discepolo Giovanni. C’era un apostolo, non i dodici e non i centoventi della Pentecoste. Come mai? Però siamo sicuri di una cosa: Maria e Giovanni non hanno disarmato avendo ricevuto lo Spirito di Gesù dopo che ha detto, prima di reclinare il capo e di emettere lo spirito, “Tutto è compiuto”. Ciò vuol dire che lo Spirito di vita è opera del cuore; Gesù fa dono della Sua vita che fa nascere, fa vivere la Chiesa. Maria è diventata perno tra i discepoli impauriti, confusi, smarriti per cinquanta giorni in cui si davano appuntamento nel Cenacolo per rincuorarsi. Nonostante che alcuni lo avessero visto risorgere, avevano bisogno della Pentecoste. Il dono dello Spirito, che dà al cuore un tenace vigore, dà una capacità di sperare al di là di ogni speranza.
Quando si esaurisce la speranza umana, lì comincia la nuova speranza: quella divina, riconosciuta, accolta, domandata come risorsa. Io non so cosa altro aggiungere: queste cose le ho sperimentate sulla mia pelle e le ho comunicate a molti altri, vedendo gli effetti miracolosi della ripresa. Una ripresa non automatica, perché non c’è automatismo nella vita; è la ripresa che vede la semina, l’attesa del germoglio, la fioritura e poi i frutti. E’ il tempo che aiuterà a capire per chi imposta bene e tiene la barra diritta dell’atteggiamento del cuore. Gesù con la sua rivelazione ci rappresenta Dio come il Padre Buono e ci invita a invocarlo come Padre nostro. Sia Lui a sprigionare in te, in noi la potenza del suo Spirito così che ciò che è confusione, scoramento, dramma, divenga luce, divenga chiarezza di strada, divenga serenità al cuore e amicizia che dà forza e sostegno.
ANNA MARIA (Milano): Una delle prime cose che mi hanno colpito venendo agli incontri di Famiglie in cammino, è stata una frase di don Giancarlo. Ero sconvolta perché la mia tragedia dovuta alla morte di mio figlio Massimiliano, con cui avevo un rapporto molto stretto, era avvenuta solo da otto mesi. Sono arrivata in una condizione di tanta sofferenza, ma tu, Don Giancarlo, mi hai detto - non ricordo le parole esatte ma il senso era più o meno questo - che la vita va vissuta per quello che è e che è comunque gioia. Mi sono allora chiesto: come faccio ad accogliere questo invito in me, che ho solo voglia di raggiungere mio figlio?
DON GIANCARLO: Avrò detto che la vita è solo promessa di gioia.
ANNA MARIA (Milano): Sì lo so, ma io l’ho interpretata così e mi sono quindi detta: ma questo è pazzo! Poi invece, grazie agli incontri con voi, ho capito esattamente quello che tu don Giancarlo volevi dire e ho incominciato a capire. Secondo me è importante anche fidarsi di chi come te è una guida che necessariamente aiuta; è quanto mi preme dire a Caterina.
DON GIANCARLO: Il senso del tuo intervento conferma quanto ho detto nella mia conclusione. Nel tempo: non perché è il tempo che ci consolerà - non facciamo questo errore che entra nel linguaggio popolare; il tempo non risolve niente. Ciò che risolve è l’incontro collaborativo di due libertà: quella del Padre eterno e quella del figlio. Tuttavia in anni di vicinanza, di legami, di incontri, di riflessioni, la vita promette un cambiamento che la rasserena facendocela ancora gustare come possibilità di vivere .
ANNA (Busto Arsizio): Sono Anna, la moglie di Giovanni, ed insieme esprimiamo la nostra gioia per essere di nuovo con voi dopo un anno di forzata lontananza, avendo così la possibilità di consolidare e approfondire il nostro rapporto di amicizia. Confrontarsi con una malattia seria, abbastanza grave, che improvvisamente ti si presenta davanti, vuol dire chiaramente mettere in gioco delle energie, delle potenzialità nuove per non soccombere al terremoto che ti sta sconvolgendo l’esistenza. In questo anno ho provato a trasformare quello che poteva essere un fatto che accadeva contro ogni mia volontà in un evento nell’accezione di cui parlava don Giancarlo durante l’Omelia, cioè in una possibilità di incontro con il Signore per provare a dare un significato a tutto quello che mi stava capitando. La mia prima scelta razionale è stata quella di impedirmi di pormi la domanda: perché? Se avessi lasciato spazio a quella domanda, avrebbe voluto dire rinnovare tutte le fatiche e le sofferenze che la vita mi ha già presentato, nella prospettiva di dover affrontare un’altra gravissima prova. Tutto ciò mi avrebbe provocato un rancore e una disperazione solamente distruttivi. Allora mi sono detta: non poniamoci domande, perché altrimenti non so dove andiamo a finire; cerchiamo invece di vivere la realtà per quella che è come possibilità di incontro con il Mistero, perché mi si accompagni e mi sorregga. D’altronde le circostanze della vita sono una modalità con cui il Signore ci viene accanto. Pensiamo alla Samaritana: se lei non fosse stata a quel pozzo, non avrebbe potuto incontrare il Signore, poi anche a Zaccheo sull’albero: se non fosse stato lì, non avrebbe potuto incontrare Gesù. Così anch’io: se non ci sto con fedeltà e docilità nelle situazioni che mi vengono incontro, probabilmente non incontro il Signore. Con questo pensiero mi sono svegliata ogni mattina alle sei e mezzo; per mesi e mesi e non avevo assolutamente niente da fare se non stare con me stessa, con i miei malesseri, con quelle aggressioni anche psicologiche che la malattia comporta. Quindi incominciavo, appena aperti gli occhi, ad affidare quel niente che mi trovavo fra le mani al Signore, perché non avevo nient’altro da fare di più vero. Ho vissuto giorno dopo giorno, per mesi, da sola o quasi, senza possibilità di incontrare nessuno se non Giovanni, ma sono stata abbastanza serena, perché ho vissuto la compagnia del Signore, ho vissuto il sostegno del mio Angelo Custode, la mia bambina, che invocavo spessissimo, ho vissuto la potenza della preghiera di tutte le persone che mi hanno accompagnato a distanza, a partire dalle amiche di Famiglie in cammino con cui scambiavo diverse telefonate. La lettura di libri mi ha pure accompagnata in quei momenti di solitudine. Quando Giovanni andava a Messa, mi portava l’Eucarestia e quindi la grazia di Gesù che poteva entrare a far parte di me e di quel quotidiano così faticoso.
Questo lo dico non per assumere una posizione orgogliosa, ma perché è quello che è stato; quello che sarà domani io non lo so, perché dalla mia malattia non sono fuori, i controlli devono ancora venire. Non vi dico quello che farei in futuro se il male mi dovesse aggredire di nuovo; vi dico quello che è stato fino ad oggi. Voglio semplicemente testimoniare il mio tentativo di rendere presente l’incontro con Gesù ogni giorno, ciò che mi ha veramente sorretto.
GIOVANNI (Busto Arsizio): L’importanza della fede e dell’incontro con Gesù lo si misura in ogni momento della vita, come nel caso della malattia di mia moglie Anna. Di fronte poi alla morte di un bambino, come nel caso di nostra figlia Maria Gabriella, c’è un vissuto umano lacerato che fatica a trovare una risposta accettabile. In realtà non esistono motivazioni razionali che soddisfino il cuore. Fortunatamente c’è un aiuto dall’alto che è Grazia, che è qualcosa che va oltre e che a me ha dato il motivo per cui sono qui, che ci fa scoprire in Cristo, morto e risorto, l’autentica speranza. In caso contrario io, di fronte alla morte di un bambino, sarei ateo.
BRUNA (Milano): Quanto detto da Anna e Giovanni io posso confermarlo in pieno perché, oltre alla tragedia per la morte di un figlio e alla malattia, ho sofferto anche la perdita di mio marito. Poi finalmente ho avuto l’incontro con Famiglie in Cammino e con Don Giancarlo.
GIOVANNI (Milano): Quando ha parlato Caterina della sua tragedia, mi sono sentito compartecipe: ho ravvisato le stesse cose di mia figlia. Anche lei è venuta a mancare senza nessun preavviso, ma quando ci ha lasciato abbiamo sentito accanto a noi il suo spirito.
DON GIANCARLO: Se permettete, quello che mi è balzato con lucidità è quanto Anna ha affermato. Dopo la diagnosi della sua grave malattia ha detto a se stessa: non mi pongo domande. Ha fatto invece la domanda più radicale, quella che va alla radice, al cuore: trasformare la sofferenza in evento. Le domande non sono solo quelle formulate con il pensiero e che arrivano sulle labbra; la domanda nella sua origine primaria è la mossa che dà l’impronta al modo con cui si affronta la vita. Ed è innovativo anche come apertura trasformare la cosa in evento, cioè nella possibilità che Cristo, vincitore del maligno e della insignificanza, possa trasformare il male in un bene, in una possibilità. Al termine della sua testimonianza Anna ha aggiunto: io non so cosa accadrà nel mio futuro. Ciò vuol dire che Anna ci ha testimoniato una crescita, una esperienza positiva nel dramma di quell’isolamento, di non poter uscire di casa e di non saper che cosa fare se non pregare, aspettare che Giovanni portasse l’Eucarestia, ricevere con gioia o fare telefonate agli amici e occupare il tempo con letture sane. Questo è un metodo che io rioffro a tutti e prendo per me. Trasformare il particolare, il presente drammatico o confuso in un evento dove il Tu di Dio possa portare chiarezza rendendosi riconoscenti. Anche quello che Giovanni ha detto, e questo è già emerso tante volte nella testimonianza degli incontri, io l’ho imparato da voi: lo spirito dei vostri figli è entrato nel nostro io, continua a vivere nel nostro io. Questa è una implicazione della fede in Gesù Risorto, in Gesù risposta ai drammi perché ci dà la certezza della vita eterna nella quale, come diremo nella preghiera finale, i nostri figli sono più presenti adesso di prima, anche se in una forma diversa da quella a cui fisicamente e affettivamente eravamo abituati. E’ la forma, la modalità di Dio che entra in azione con lo Spirito e io ho sentito molti di voi dire: il desiderio dei nostri figli è che noi viviamo intensamente la vita e non ci risparmiamo la gioia della fruizione delle cose belle; si rincrescerebbero nel vederci intristiti. Ecco, questi aspetti teniamoli presenti, perché indicano una strada maestra tra le possibilità di vita.
NATALE (Usmate): Io sono grato per questa ricchezza che percepisco ogni volta che ci incontriamo. Devo dire che porto a casa un qualcosa di grande da quello che avete detto, da quello che ho sentito da Anna, da Giovanni e dalla stessa Caterina, e questo è a conferma di quello che noi facciamo confrontandoci con quello che leggiamo e che ultimamente ci viene indicato. E proprio rileggendo il testo “Vivere è la memoria di me”, al termine della pagina 48 dove si dice che senza la contemporaneità di Cristo non c’è speranza che sostenga la vita, emerge la constatazione che la speranza deve essere poggiata su un fatto presente. Qual è questo fatto che possa essere criterio di giudizio e fonte di sicurezza? E’ Cristo, Cristo nostra speranza, cioè presente, cioè la Chiesa che ha fondato, cioè la compagnia nostra in quanto è il nostro modo di partecipare alla Chiesa ed è il segno della presenza di Cristo. Questo è il fatto che permette di affrontare tutto, di giudicare.
DINO (Parabiago): Vorrei anch’io dare una piccola testimonianza, soprattutto per coloro che questa prova, dovuta alla morte di un figlio, stanno affrontando adesso e non hanno trovato ancora nemmeno una piccola luce con cui orientarsi per poter trasformare questo dramma, questa tragedia. Quando purtroppo ho perso mio figlio Simone, senza ombra di dubbio ho sofferto come voi. Questa mancanza mi pesava moltissimo, ma non ero né arrabbiato né disperato e questa cosa mi ha lasciato per molto tempo perplesso e confuso. Dopo qualche mese di ricerca, di riflessione, di meditazione nella solitudine, nell’interrogare il mio essere, ho capito di avere ricevuto dal Signore una grazia. Questo avviene in un modo che per ciascuno di noi è unico, data l’unicità del nostro essere. Lo Spirito di Dio investe ciascuno di noi in modo unico, dove vuole e come vuole e nel momento che sceglierà Lui. A chi soffre per la perdita di un figlio dico che bisogna imparare a vivere questa cosa su due piani ben particolari: oltre il piano umano c’è un altro piano, quello divino. Noi non siamo solo carne, siamo anche spirito. Se uno si arrende al piano umano non c’è niente da fare. Oggi ho avvertito la presenza dello spirito nei vostri discorsi, l’ho visto nelle vostre parole e allora bisogna tenerne conto e dargli il valore che gli spetta! Per questo valore noi dobbiamo vedere la vita in un altro modo, un modo che ci fa dire, sul piano del divino, che noi non abbiamo perso nessuno e che siamo stati fortunati ad avere avuto con noi un figlio, una creatura che in questo mondo è stata con noi un mese, un anno, quindici anni, trentotto anni, e che ora vive nell’eternità di Dio.
UNA MAMMA: I nostri figli sono sempre vicino a noi!
DINO (Parabiago): Certo, ma soprattutto dobbiamo ringraziare Dio per il figlio che si è avuto e domandarsi se la sua morte ha un senso, come sicuramente ne ha.
ROBERTO (Vimercate): Anch’io ho dovuto affrontare questa prova e spero di capire un domani il perché e di trovare quella strada a cui porta la speranza, se no non sarei qui. Se mi fosse rimasto un figlio avrei vissuto per l’altro figlio, per impostare ancora la sua esperienza di vita, per ricostruire qualcosa che comunque non è ben definito. Io so che mio figlio, i nostri figli ora stanno meglio di prima e sono molto più illuminati di prima, ma non è facile trattenere un dolore per una cosa così innaturale come sopravvivere ad un figlio! Nella nostra carnalità, nel nostro mondo terreno diciamo che loro dovevano vivere la loro vita, dovevano viverla!
DINO (Parabiago): Ma noi stiamo vivendo nell’eternità! E’ giusto che i figli sopravvivano ai genitori: è una constatazione umana, razionale, ma se hai fede ti devi rendere conto che stai vivendo nell’eternità. Il tuo piano, la tua posizione deve essere quella. Se hai questa posizione di fede non puoi dire quelle frasi, perché quelle frasi le può dire soltanto chi ritiene che dopo la morte non c’è più niente, che tutto è finito. Ma se la morte è semplicemente un passaggio …
UNA MAMMA: No, sono percezioni che non possiamo non avere. Noi siamo sulla terra, e quando vediamo gli altri ragazzi che vivono e i nostri ragazzi non ci sono più… Io sono mamma e soffro terribilmente!
ROBERTO (Vimercate): Forse mi sono spiegato male. Io ho la fede, ma non è ancora sufficiente per capire quello che è successo e sono qui per imparare. C’è comunque un dato di fatto: cielo e terra sono due mondi diversi. Don Giancarlo diceva che bisogna cercare di essere felici, di vivere la vita ecc. Ma sai quanto è brutto quando sei con della gente normale, che ha una famiglia normale e non sa più come comportarsi con te perché s’accorge che ti stai trattenendo dal piangere! E allora io tante volte con mia moglie Mary dico: è giusto che si debba affrontare queste persone, però diamo tempo al tempo perché adesso io ho bisogno di riordinare il cuore. Quando piango sulla tomba di mio figlio e penso, come tutti voi per i vostri figli, a quanto era fantastico mio figlio e a cosa avrei potuto fare con lui e a tutte le cose che avevamo progettato, mi viene la voglia di cedere alla disperazione, perché è la cosa più semplice. Poi penso a quello che don Giancarlo ci ha detto: “Voi troverete la pace solo quando sarete con lui”. Così io vivo sperando in questo condividere, che la fede ci promette. Penso che i nostri figli stiano presso Dio e spero che in Lui ci ricongiungeremo. Ma intanto soffriamo per la loro mancanza terrena …
DINO (Parabiago): Anch’io per mio figlio ho sempre avuto il desiderio di dargli il maggior bene possibile, ho sempre pensato a lui, ma so che ora sta facendo una bellissima vita vivendo nell’eternità di Dio. Quelli che sono stati i miei progetti, come del resto quelli di tutti noi, sono andati in frantumi, ma erano progetti illusori. Ai progetti umani, anche se in sé belli e che i nostri figli avrebbero potuto godere, è subentrata una posizione di vita immensamente più importante che è la posizione eterna, divina. Non ho bisogno delle prove per affidarmi al Signore, ma in ogni momento della mia vita ho bisogno del rapporto con Lui, della preghiera per dare un senso e per continuare questa vita. Ho bisogno di tutto quello che mi dà il Signore e che mi mette a disposizione!
GIUSEPPE (Milano): La cosa di cui fino a un po’ di tempo fa non volevo far memoria era ricordarmi la visita all’obitorio in occasione della morte di mio figlio. In realtà adesso, quando mi viene in mente quella scena, io riesco a capire la giustezza della mia strada di vita, perché in effetti se io mi fossi fermato a voler dimenticare la scena più brutta della mia vita senza voler capire tutto il cammino che ho fatto dopo, non avrei capito niente del percorso che ho fatto. In realtà in un primo momento ho avuto la percezione che mio figlio non fosse là, nell’obitorio, come forse è capitato anche a voi. Di fronte al corpo esanime del proprio figlio, è naturale pensare che “quella cosa lì” non sia lui, perché si spera che il proprio figlio sia da un’altra parte. Dopo aver maturato la consapevolezza che il cammino successivamente percorso era giusto proprio per il discorso che ha fatto Dino, ho capito che non basta vivere in un rapporto puramente temporale, ma che dobbiamo superarlo nella dimensione dell’eternità. Una dimensione che comporta una sproporzione talmente grande che quasi ci sembra una cosa utopistica. In realtà l’eternità esiste e dobbiamo cercare di portare avanti questo tipo di discorso nella fede di Cristo, che è l’unico che ci può dare realmente quello che è il legame vero ed eterno con i nostri figli e anche con Lui. Un’altra cosa che mi veniva in mente sentendovi parlare è quello che normalmente io chiamo un po’ l’egoismo del genitore, perché il genitore pensa: ma perché proprio a mio figlio; non poteva capitare a qualcun altro? Ma chi sono io per decidere questa cosa? Se io penso solo al fatto della fortuna che ho avuto di nascere nel nord del mondo, se penso che solo l’altro giorno duecento immigrati che sono annegati… Se io fossi nato nel sud del mondo, mio figlio poteva morire nello stesso modo. Di fronte a simili eventi, come a quelli della morte dei nostri figli, non basterebbero probabilmente tutti i filosofi per spiegare il perché succedono queste cose; forse riusciremo a capire soltanto quando saremo davanti a Dio. Ma come dicevamo e diceva Anna, il vero problema è non farsi questa domanda. Dobbiamo invece farci quest’altra domanda: come faccio ad avere speranza, come faccio a continuare a vivere?
DON GIANCARLO: Vorrei tentare, se mi riesce, di seguire il filo conduttore dei vari dialoghi che sono emersi. Parto da te Roberto. Tu dici: io ho fede ma non è il massimo. Quel poco o tanto di fede che hai lo sa il Padre Eterno e neanche tu lo sai. Riesci però già a cogliere e a riconoscere, in qualche caso a capire in modo lucido e chiaro, alcuni elementi di quel gran groviglio che è la realtà di oggi. E oggi hai delle domande inevase e ti scandalizza il solo pensare che una tragedia come la morte di un figlio possa essere valutata attraverso la fede come grazia. Quello che ha detto Dino in primo luogo io lo condivido totalmente, ma il fatto che sia uscito dalle sue labbra e non dalle labbra di un prete dà ancora maggior credito, perché lui è un convertito. A quello che affiora dal cuore dei convertiti riconosco un peso e una credibilità per la verità che contiene, che è diverso da quello che magari emerge, fra virgolette, fra noi o anche dai professionisti della teologia. Dino ha detto una cosa che è elementare per la fede, ma che è un dato da riconoscere: il tempo che conta non è il tempo cronologico, ma quello eterno. La Bibbia fa una distinzione radicale tra il cronos e il kairòs che è il tempo eterno e che è a sua volta quello del divino in azione. La parola kairòs vuol dire grazia. Sono concezioni diverse: la fede colloca il particolare o i particolari della precarietà, dell’effimero che c’è nella vita terrena, nel grande mosaico dell’Eterno. E l’Eterno non è il dopo; è il qui investito e illuminato che spalanca orizzonti e che non ti fa più vedere il terminale del tramonto che noi chiamiamo tragico, ma ti fa vedere il terminale del tutto per sempre. Questo accompagna la conversione; è grazia che porta con sé la preghiera insistente: “Vieni Signore Gesù, venga il tuo Regno, manifestati!”. L’Eterno, la vita eterna incomincia ad essere avvertita come vera, bella, attraente, carica di speranza, di certezza proiettata sul tutto, grazie al dono di incontri che suscitano la fede in Gesù. La prima implicazione di questa scoperta è rinvenire quello che c’era, ma che non conoscevo, non sapevo. La seconda implicazione è che tu guardi la vita non più carica di diritti, ma come dono e basta. Era una delle affermazioni che veniva fuori da Dino. Dobbiamo saper guardare la vita non sulla base della rivendicazione di diritti, ma come dono. Dobbiamo educarci a guardare la realtà, il passato, il presente e il futuro come dono, espressione dell’Eterno che si è condensato nel cronos, nella cronologia, nel tempo per un tot numero di anni e per certe possibilità che ci sono state date. Bisogna saper riconoscere questo e ringraziare Dio di questo. Se invece accampiamo dei diritti e ci irrigidiamo su questi, diventiamo dei competitori del Padre Eterno. E questo atteggiamento è una sorta di bestemmia! E’ chiaro? Certo, questo lo si capisce cammin facendo. Non a caso il nostro gruppo si chiama Famiglie in cammino.<-->