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Gennaio: Incontro mensile

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INCONTRO GENNAIO 2008

Natale Colombo (Usmate). Iniziamo la nostra assemblea salutando tutti i presenti e invitando le persone che sono con noi per la prima volta a portare il loro contributo. Ci racconteremo come abbiamo vissuto questo mese, soprattutto il periodo natalizio che ci rende più viva la mancanza dei nostri cari. Continueremo poi a riflettere sull’enciclica Deus Caritas Est.

Gabriella Valleri (Gallarate). Siamo i genitori di Marco che, nel luglio scorso, ha perso la vita in un incidente stradale. La nostra prima reazione, per quanto possa apparire sconcertante, è stata di ringraziamento a Dio per aver avuto un dono così grande. Nostro figlio è stato il figlio che tutti vorrebbero avere anche se questo non vuol dire figlio perfetto. Le discussioni tra me e lui erano all’ordine del giorno. Ripensando comunque al rapporto che avevamo e alla sua splendida figura, non potevamo che dire grazie. Davanti al vuoto che si è venuto a creare c’erano due possibili reazioni: quella di impazzire o quella di reagire e diventare più forti. Noi abbiamo deciso per la seconda. Marco ha sempre avuto tantissimi amici che, a volte, erano come la seconda famiglia. Ci è sembrata buona cosa coinvolgerli per fondare con loro un’associazione, denominata “Gli amici di Marco” e costituitasi il 7 gennaio, giorno del suo compleanno. L’intento è di destinare i suoi risparmi in opere di bene per far scoprire che c’è gioia anche nel dare e non solo nello scorazzare in moto o al pub.

Io sento che mio figlio è vivo. Non lo vedo ma so che c’è. Questo ci dà tanta forza. Come la maggior parte dei giovani di oggi, purtroppo Marco non frequentava la Chiesa. Eravamo molto spaventati ed, anche preoccupati per la domanda che da cattolici ci siamo fatta: nostro figlio si sarà salvato? Riflettendo mi sono però resa conto che Marco non aveva mai rifiutato Dio, anzi aveva sempre avuto rispetto della tematica religiosa. Da letture fatte e dal confronto con alcune persone mi sono resa conto che la misericordia di Dio è infinita e che forse io ero stata un giudice troppo severo nel pensare o nel mettere in dubbio la sua salvezza.
Marco ha ricevuto tante testimonianze d’amicizia. Dopo la sua morte ho scoperto quanto valesse e quanto i suoi amici lo apprezzassero. Le molte lettere che abbiamo ricevuto ci testimoniano che Marco ha ben operato.

Recentemente a Medjugoie abbiamo avuto un incontro che ci ha sollevato. Pochi minuti prima di partire ho casualmente incontrato una signora che mi ha confidato di aver perso Sara, una bimba di tre anni e mezzo colpita da un fulmine sulla spiaggia. La sera prima di morire le aveva raccontato una strana storia: quando lei era piccola aveva vissuto in un posto bellissimo con mamma Morena. La mamma, stando al gioco, le aveva chiesto con chi, potendo scegliere, avrebbe preferito stare. Sara le aveva risposto che avrebbe voluto restare con mamma Morena perché era una mamma buonissima. Alcuni giorni dopo la sua morte il papà su internet aveva scoperto che il giorno della sua morte era la festa del Santuario della Madonna Morena in Bolivia, il santuario più frequentato dell’America Latina e che Morena è l’appellativo con cui i boliviani chiamano la Madonna.

Sono tornata da Medjugorie con una pace che prima non avevo. Di giorno si vive la solita routine. Molti sono stupiti perché riusciamo anche a sorridere. A volte questa nostra quasi normalità mette addirittura in imbarazzo gli altri. La sera però è molto triste anche perché tornano alla mente le occasioni mancate, gli errori fatti come genitori, il rammarico per non avere apprezzato a sufficienza quanto avevamo con noi. Da qui il desiderio di fare qualcosa per lui e far sì che la sua morte non sia inutile.
Nella morte di Marco c’è una coincidenza impressionante di date: è nato il 7 gennaio e il 7 gennaio del 2007 è morto mio padre. Il 7 luglio è morto lui. Marco mi chiedeva perché il nonno fosse morto il giorno del suo compleanno e la mia risposta è stata: “Perché tu rappresenti la vita che continua”.

Don Giancarlo. Il fatto di aver fede vi ha permesso di mettervi davanti al dramma che vi ha colpito con uno sguardo vero: la gratitudine per i figli avuti in dono e la libertà di decidere per il positivo che nel cammino vi ha portato a incontrarci e, oggi, a riconoscerci nel comune percorso di speranza.

Natale Colombo (Uusmate). Mi ha colpito il vostro desiderio di dare un senso al dramma che si è abbattuto sulla vostra famiglia e di ricercare conferme attraverso chi ha avuto esperienze analoghe alla vostra. Anche noi sappiamo per esperienza che il dolore vissuto da soli può diventare tragico: se condiviso diventa più sopportabile.

Gabriella Valleri (Gallarate). L’incontro con la signora a Medjugorie e con voi è casuale. Noi non abbiamo mai cercato genitori con i quali condividere il nostro dolore. La condivisione sicuramente aiuta ma, in quel momento, non abbiamo sentito tale necessità. Evidentemente i nostri angeli hanno reso possibile questi accadimenti. Nel dolore possiamo dire di essere stati fortunati perché ci siamo sentiti circondati dall’affetto di molti che non conoscevamo. Questo ci ha sorpreso moltissimo e ci ha dato forza.
Molti hanno pregato per nostro figlio e per noi. Sono sicura che la preghiera nel dolore crei una protezione.

Don Giancarlo. Noi usiamo un termine che abbiamo imparato dalla cultura e dalla tradizione cattolica: trasfigurazione del dolore, non immunizzazione. Il dolore permane, la sofferenza del vuoto c’è. Passa nei decenni, ma in alcuni momenti dell’anno, in prossimità di alcune feste, degli anniversari, certi incontri di coetanei, rendono il dolore più forte. Il dolore c’è, ma la fede, che si alimenta e si esprime anche attraverso la preghiera, per il contributo e la natura del gesto del pregare, memoria della vicinanza di Dio, che nell’uomo Gesù si è fatto carico di tutto il male, di tutte le contraddizioni e le ha redente (cioè trasformate da castigo in occasioni educative di salvezza, maturazione di ciò che è essenziale, perciò del destino), dà al dolore una nuova configurazione. L’immagine che noi ci portiamo dentro è che la sofferenza è solo male, con la preghiera e la grazia della fede, si arriva a riconoscerla come possibilità di bene per quello che Gesù è venuto a portare. “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto”. Voi, di fronte all’impossibile, siete impotenti. Io posso l’impossibile e quindi è umanamente confortante e fonte di speranza quando ci si accorge di certe esperienze di quiete, di pace e di serenità, pur dovendo affrontare la fatica, le domande che derivano dalla condizione esistenziale.

Giorgio Macchi (Varese). Per me la perdita di un figlio è la cosa più straziante che mi sia potuta accadere. Si può trovare l’aiuto negli amici e nella preghiera ma il dolore rimane. La fatica è di vivere il dolore subito, la grazia è di viverlo con uno spiraglio di speranza, ma quello che è difficoltoso per tutti è il cammino. Dopo dieci anni ci può essere il rischio di una normalizzazione e il fatto potrebbe diventare un fatto accaduto. La perdita dei nostri figli ci ha mossi alla ricerca della verità e proprio perché la ferita non si rimargina mai in modo definitivo, in alcuni periodi rinascono le domande che ci ridestano.

Gabriella Valleri (Gallarate). Raramente mi mostro in lacrime e questo non vuol dire che io non soffra o non piango. La ricerca di Dio era già in atto, ora è più accentuata e la morte di nostro figlio ci impone di vivere la vita in modo che nostro figlio possa essere orgoglioso di noi. Non dobbiamo fare grandi cose ma dobbiamo cercare di essere delle persone giuste. Abbiamo altri due figli che studiano e per ora sono un po’ lontani dalla ricerca religiosa. Loro però hanno l’opportunità di vedere il nostro cammino e spero che questo possa dare dei frutti.
Mio marito fa molta fatica a parlare di Marco, io invece ho la necessità di parlarne perché è un modo di sentirlo vivo. Ho parlato prima dell’incontro a Medjugorie con la mamma di Sara e per me quelle parole sono diventate un messaggio, come se la Madonna mi dicesse di stare tranquilla perché adesso è Lei a occuparsi di Marco. Questo incontro mi ha dato pace e forza maggiori. Ho incontrato anche suor Emanuelle che mi ha detto queste parole: “Ricordati che la Madonna dice che la morte non esiste. E’ un velo che cade e tutto ciò che era invisibile diventa visibile. E’ come se noi ci avvicinassimo ad un vetro e noi, che siamo all’esterno, non vediamo dentro, mentre chi è dentro vede tutto fuori. E’ una seconda vita che affianca la nostra vita. Questo velo che cade è la morte”.
Io credo e voglio credere fermamente. La morte è un passaggio.

Giovanni Rimoldi (Busto A.). Ho una certa esperienza con i giovani in quanto insegno filosofia e storia in un liceo scientifico. Con loro bisogna andare all’essenza delle cose. Mettere al centro Cristo che è risorto. La Croce e la Redenzione. La nostra fede non si basa su tante cose ma trova la centralità in Cristo. San Paolo diceva chiaramente: “Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede”. Il giovane capisce questo perché è essenziale: morte e risurrezione si basa su una figura. Il resto è comprensibile ma per loro rimane a livello sentimentale.

Gabriella Valleri (Gallarate). Io non ho conoscenze filosofiche tali da poter dibattere con loro. Credo, come dice il Vangelo, che per capire bisogna diventare come bambini, semplici. Arriverà il momento in cui scatterà in loro qualcosa. Noi possiamo solo affidarci al Signore, pregare e sperare. Anche Marco, forse, ci aiuterà in questo.

Marisa Crolla (Busto A.). Vorrei riferirmi a quanto detto oggi dal Papa all’Angelus. Il Papa non giudica ma dà le ragioni per giudicare e si affida alla preghiera e alla ragione. Seguendo il suo ragionamento credo che dobbiamo sempre di più diffondere la cultura attraverso la fede e la grande importanza della preghiera.

Don Giancarlo. Vorrei chiarire. Il Papa, anche questa mattina, ha giudicato. Una cosa è giudicare, altra il condannare. Il giudizio è valutazione critica in rapporto al vero o al falso. Il Papa ha ribadito: “Mi è stato impedito di parlare”. Il Papa ha insegnato in cinque Università statali ed è un grande teologo. Non ha detto però di vendicarsi. Con sensibilità di fede, ricca di motivazioni ragionevoli, ha invitato a rispettare sempre, in forza della ragione, la libertà, le opinioni diverse, per avviare confronti. Noi abbiamo il grande compito non solo di testimoniare la fede, la speranza e l’amore nell’uomo Dio-Gesù che vive nella Chiesa, abbiamo il compito di rendere la nostra fede ragionevole. Così ricca di ragioni culturale da essere sostenibile, confrontabile di fronte a tutti, sempre. Non per imporre ma per comunicare che il contenuto della fede, che come grazia e scelta di libertà abbiamo avuto, è ciò che corrisponde alle domande e alle esigenze ultime del cuore. Quando un’esperienza riempie, corrisponde, è un’esperienza conveniente, vantaggiosa. Quando uno riconosce, giudica tale vantaggio e corrispondenza dell’esperienza, la sostiene e comunica con libertà, serenità e gioia.

Giovanni Rimoldi. (Busto A). Davanti a questo universo meraviglioso Einstein è arrivato a credere in Dio. Acker ha fatto un’altra scelta dicendo che l’universo è frutto del caso. E’ una scelta non più scientifica. E’ una scelta della verità esistenziale che ciascuno di noi fa. Ci vuole più fede a pensare che un universo così meraviglioso sia frutto del caso che non a pensare che ci sia un’intelligenza che ha creato.

Giuseppe La Fertita (Busto A.). Le esperienze piacevoli rendono bella la nostra vita. Le esperienze che fanno crescere di più sono quelle più dolorose. Credo che tutti noi abbiamo una parte che non è ancora cresciuta e le sofferenze incidono su questa parte di noi stessi producendo anche dei mutamenti, delle trasformazioni. Possiamo usare la sofferenza per trasformare non solo noi ma anche chi ci sta attorno.

Don Giancarlo. Continuiamo la riflessione sull’enciclica del Papa “Deus caritas est” in questo mese che ci introduce nella quaresima. E’ un tempo che ci facilita a trovare tempi per la meditazione. La meditazione è sempre un paragone tra ciò che sono e mi accade e il modello di uomo vero, nuovo, che è Gesù. Nella prima parte dell’enciclica il Papa, sull’affermazione che Dio è amore, ci ha illustrato che cosa sia l’amore, Nella triplice componente sperimentata anche da noi: l’amore erotico, l’amore contemplativo, l’amore amicale. Attraverso la tesi biblica e con cenni dialettici nei confronti delle filosofie ha affermato una cosa sorprendente, cioè che in Dio l’eros è potente. In Dio l’amore è così passionale da arrivare a sacrificare sé nel Figlio. Appassiona sentirsi appassionatamente eletti, prediletti e chiamati, salvati e incaricati di essere suoi collaboratori, nel rendere presente nella vita segni vivi e contagiosi del suo amore, di Lui che è amore. Con più ci si lascia plasmare e condurre da questa visuale, tanto più le altre scompaiono.
Nella seconda parte il Papa si interroga su come la Chiesa, che ha come natura di essere una comunità di amore, perché prolunga nella storia la compagnia trinitaria, come è chiamata a vivere l’esercizio della carità? Il Papa dice che innanzi tutto la Chiesa è chiamata a vivere ciò che è, non ciò che deve fare. Se è comunità d’amore deve preoccuparsi di essere tale. Ma chi la rende tale è lo Spirito Santo, è la potenza interiore. Energia feconda e potente che rende l’umano dei discepoli, che si lasciano plasmare e convertire, sempre più vicino e conforme all’umano di Gesù.
Lo Spirito, infatti, è quella potenza interiore che armonizza il loro cuore col cuore di Cristo e li muove ad amare i fratelli come li ha amati Lui, quando si è curvato a lavare i piedi dei discepoli e soprattutto quando ha donato la sua vita per tutti. Lo Spirito è anche forza che trasforma il cuore della Comunità ecclesiale, affinché sia nel mondo testimone dell’amore del Padre, che vuole fare dell’umanità, nel suo Figlio, un’unica famiglia. Tutta l’attività della Chiesa è espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo: cerca la sua evangelizzazione mediante la Parola e i Sacramenti; cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell’attività umana. Amore è pertanto il servizio che la Chiesa svolge per venire costantemente incontro alle sofferenze e ai bisogni, anche materiali, degli uomini.
Questa è la coscienza, la certezza che definisce la Chiesa ed è anche la condizione che la fa essere sacramento dell’amore di Dio. Quello di essere segno dell’amore di Dio il Papa lo attribuisce ai singoli e alle compagini associate di persone, del singolo, della famiglia cattolica, dei movimenti. Non si può essere discepoli, definirsi discepoli di Gesù, se non si è nella carità e non la si vive. Il Papa passa in rassegna i primi secoli della Chiesa citando la Chiesa di Gerusalemme, nei decenni seguiti alla Resurrezione, attraverso il diaconato. La diaconia, cioè il servizio, che la comunità degli Apostoli ha inventato e affidato a setti uomini pieni di speranza, di spirito e di saggezza, che accudivano ai poveri, ai bisognosi, alle vedove, sia della comunità sia che non vi appartenessero. Tra questi diaconi cita Stefano, il primo martire appartenente alla Chiesa di Gerusalemme, e Lorenzo della Chiesa di Roma. Poi il Papa afferma che la Chiesa in tutto il decorso della sua storia ha sempre tenuto presenti tre compiti attraverso i quali esprimere e far conoscere la sua natura: sacramento dell’amore di Dio e luce dei popoli. Il primo, martyria, ministero della Parola. Il secondo, leiturgia, celebrazione dei Sacramenti. Il terzo, diakonia, servizio della carità. Soprattutto l’esercizio della carità, dice il Papa, nei confronti di tutti i bisognosi, nei confronti dei pagani, dei persecutori, era il metodo della Chiesa al punto che un imperatore Giuliano l’apostata, nel IV secolo, ha introdotto leggi dell’impero ispirandosi all’attività caritativa della Chiesa che maggiormente lo aveva colpito. E’ stato un contributo culturale ed esistenziale che l’impero romano ha visto come forma desiderabile e assimilabile. Il Papa affronta poi il rapporto tra carità e giustizia focalizzando nell’ottocento, con la comparsa del capitalismo e dell’industrializzazione, un cambiamento radicale della società in cui il capitale e il lavoro diventano la questione decisiva. Si chiede alla Chiesa di smettere di fare carità per rivolgere l’attenzione alla giustizia, anche per correggere le coscienze dei nuovi capitalisti che sfruttano nelle fabbriche e poi promuovono opere di bene per tacitare gli squilibri e i rimorsi delle loro coscienze. Il Papa dice che innanzitutto non è compito della Chiesa di farsi carico di una responsabilità sociale e della qualità di vita dei cittadini, ma questo è compito della politica, degli stati. La Chiesa anche sul fronte della giustizia, pur continuando a vivere la diaconia come esercizio della carità, ha molto da dare nel campo della giustizia, dapprima con la sua dottrina sociale (Rerum novarum). In secondo luogo la Chiesa sul problema della giustizia ha il compito di offrire il contributo della sua sensibilità ideale ed etica, per purificare o rigenerare i contenuti della parola giustizia.
La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. Vuole contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato.
Il lavoro da affrontare è innanzitutto di conoscenza perché la nostra fede possa diventare ragionevole e possa anche arricchirsi. Poiché siamo sempre coinvolti con l’essere giusti e caritatevoli, dal momento che ci si trova a contatto con culture diverse, l’enciclica ci offre l’opportunità di usare del criterio di carità per operare nella giustizia rendendo i contesti umanamente vivibili.

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