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Marzo: Incontro mensile

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Incontro di marzo ‘06


Natale Colombo (Usmate). Porto il saluto di Gino Varrà che, dopo un infarto e l’intervento chirurgico, sta lasciando l’ospedale. Le nostre condoglianze anche a Giuseppe Forame e a Maria Vallini che hanno rispettivamente perso il papà e la mamma.
Sono presenti per la prima Emanuela e Giovanni Picchi, amici dei Rimoldi che sono passati dalla nostra stessa esperienza e a cui chiediamo di raccontarci ciò che a Parma è nato con loro.

Don Giancarlo Iniziamo con la preghiera tenendo presente che, quanto più l’uomo tende alla verità, tanto più prega. Pregare non è il ripetere formule. E’ riconoscere e contemplare la presenza di Dio che ci fa e ci accompagna. La preghiera è un gesto di memoria del vero volto di Dio, non di una sua riduzione idolatrica. Fare memoria è stare davanti al Mistero che si è rivelato nell’uomo Gesù come amore che ha donato la vita. L’amore di Dio è contrassegnato dalla tenerezza della madre e dal vigore del padre. Nella tradizione biblica e cattolica viene chiamato agape, amore gratuito.
Ricordiamoci anche delle persone a noi care. La preghiera è comunione con i Santi e permette a noi, Chiesa pellegrina, di percorrere simbolicamente la scala di Giacobbe. Narra il libro della Genesi che egli, in fuga dal fratello Esaù, si coricò una notte a Luz prendendo come cuscino un sasso. Durante la notte ebbe un sogno: tra lui e il Cielo vide una scala sulla quale scendevano e salivano degli angeli. Al mattino si risvegliò e, rincuorato dalla certezza d’avere Dio accanto, decise di far diventare sacro quel luogo. Vi versò sopra dell’olio e ne cambiò il nome di Luz in Betel. In ebraico Bet significa monte, rialzo. El significa Dio. Quel luogo divenò monte di Dio.
Grazie alla scala di Giacobbe noi, Chiesa pellegrina, viviamo un rapporto di comunione con la Chiesa ultraterrena e le affidiamo le nostre miserie e le nostre richieste.

Emanuela Picchi. Ringraziamo Anna e Giovanni che ci hanno dato l’opportunità di condividere con voi questo incontro. Per noi la condivisione è fondamentale ed è il tratto che accompagna la nostra esperienza di coppia e di famiglia.
L’amicizia con Anna e Giovanni risale al ’99. Quello che poteva sembrare l’incontro di due storie tragiche ha dato origine ad un’amicizia feconda e ricca di gioia. Ciò dimostra che tutte le croci possono fiorire.
Anche noi abbiamo avuto l’esperienza di un bambino nato con gravissimi problemi e vissuto pochi mesi. Attraverso le vie che solo la Provvidenza conosce, abbiamo potuto leggere un libro scritto da Giovanni e Anna e, attraverso la casa editrice, conoscerli.

La nostra vicenda è da collocare tra il ’98 e il ’99. A quell’epoca i nostri tre ragazzi avevano 16, 12 e 7 anni. Tre età diverse, con diverse esigenze. Ad ognuno di loro dovevamo dare spiegazioni diverse per un evento davanti al quale anche noi ci trovavamo smarriti.
All’inizio della quarta e ultima gravidanza avevamo ricevuto una diagnosi infausta. Il suo decorso è stato patologico e contrassegnato da vari problemi. Abbiamo sempre rifiutato l’aborto, anche quello terapeutico. Poi la nascita con il dramma di una malattia inguaribile e la scelta di portare a casa Samuele (giudicata pazza dai medici) e di tenerlo finché la sua vita fosse stata interrotta dalla Provvidenza.

All’inizio abbiamo sentito le prova come una pugnalata alla schiena perché la presunzione di essere una famiglia cristiana ce la faceva sentire come uno sgarbo non meritato del Signore. Poco alla volta abbiamo poi capito che, dietro a tale prova, c’era un suo atto di amore. Oggi, diciamo addirittura che è stata un suo atto di preferenza e di benedizione per la nostra famiglia.
Tale vicenda infatti ci ha cambiato e fatto crescere. Ci ha dato la possibilità di capire che la croce è sì sofferenza ma non è l’ultima parola sulla nostra vita; è un inizio di fecondità e di grande ricchezza.

Lo strumento che ha generato tale trasformazione è stato l’incontro e il successivo coinvolgimento in una comunità di famiglie promossa dal nostro parroco e che, oggi, è divenuto un movimento ecclesiale in via di riconoscimento da parte del Vescovo. Questo movimento è al servizio delle parrocchie e dei giovani attraverso le scuole e le varie attività parrocchiali..
La nostra esperienza ha così trovato un alveo di comunione e di condivisione. Abbiamo scelto di condividere tutto con i nostri amici per esserci resi conto che, se non avessimo aperto la nostra casa e del cuore agli altri mostrando di aver bisogno d’aiuto, probabilmente non saremmo qui, oggi, a ringraziare.

Questo è divenuto possibile perché avevamo alle spalle un’educazione alla fraternità e alla condivisione come strade alla santità. La nostra comunità ha risposto alla grande e, in questo modo, la sofferenza e il dolore sono diventati più leggeri. Siamo stati aiutati anche dagli insegnanti e dagli educatori nel far elaborare ai nostri figli questa vicenda. Siamo stati aiutati a non cadere nella disperazione e nella solitudine. Chi porta la croce ha bisogno di tutto l’aiuto possibile. Abbiamo scoperto che la carità è creativa e ognuno si esprime secondo le proprie capacità. Ci sono tante manifestazioni di fraternità e d’unione che dobbiamo saper cogliere e accettare come dono della Provvidenza.

A sette anni dalla morte del nostro bambino abbiamo deciso di affidare a un libro il racconto del nostro dramma per lasciare ai nostri figli una eredità spirituale e per dare a tutti un messaggio di speranza sul valore della vita, oggi tanto minacciata fin dal concepimento. Anna e Giovanni hanno scritto una breve prefazione. Il titolo, ripreso da un salmo, esprime la trasfigurazione del dolore: “Hai mutato il mio lamento in danza”. E’ edito dalla casa editrice Vita Nuova. La copertina è stata disegnata da nostra figlia Monica di 14 anni: il corpo ripiegato su se stesso, pian piano, si rialza e si muove nella danza.
Noi, oggi, ringraziamo Dio per questo figlio e per il dono dell’esperienza vissuta. Speriamo che altri possano credere veramente che dietro la croce c’è tanta ricchezza, fecondità e una miriade di doni.

Giovanni Picchi. Sono molto onorato di essere con voi innanzi tutto perché dove c’è verità c’è preghiera e qui ci sono persone vere. Trovare insieme tante persone vere mi fa sentire come un ricercatore. Per me, più della risposta, è importante la domanda e mi sento in sintonia con voi. Il vostro stare insieme, anche attraverso l’esperienza del male, possa portarci sempre a cercare il bene e a testimoniarlo. Gruppi così devono illuminare la società.

Don Giancarlo. La vita è fatta a tappe. La meta è unica e si chiama destino eterno. Non tutti hanno già riconosciuto che Cristo è il destino di tutto e di tutti. Ciascuno segue il cammino per come ne è capace e in base alle radici o ai principi che reggono la sua vita. La vita è paragonabile a un percorso che permette all’uomo di prendere coscienza di sé e della sua vocazione.
In una delle tappe del nostro cammino ci siamo accorti che, all’inizio, ciò che ci univa era la perdita dei figli, per tanti non ancora elaborata e trasfigurata. Poi la perdita ha smesso di essere il fattore dominante ed esclusivo. L’intera vita e la realtà sono diventate il nostro comune interesse. Dalla perdita di un lembo di vita si è passati ad amare la vita in tutte le sue scansioni.
Negli ultimi anni abbiamo incominciato a parlare di vacanze, di opere e di questioni che riguardano la fede, la Chiesa, la politica, gli amici, l’arte. Sono così sorte iniziative che ci fanno cogliere il bello della vita.

Antonietta La Pescara (Busto A.). Quando è mancato nostro figlio Matteo ed io abbiamo ricercato la compagnia di Famiglie in cammino e abbiamo incominciato a stare con loro. Anche noi abbiamo visto che la croce può fiorire. L’incidente di moto occorso a Michele è divenuto la traccia di un’opera teatrale che verrà rappresentato in sette città della provincia di Varese allo scopo di sensibilizzare i ragazzi delle scuole superiori. I nostri gruppi possono diventare luce dentro la società dato che i giovani di oggi non seguono più cammini di fede. Noi, attraverso la croce, siamo arrivati alla luce della speranza e a tentare di portarla dovunque si aprano degli spiragli.

Natale Colombo (Usmate). Giovanni ci ha detto che per lui è importante la domanda. Mi trovo d’accordo perchè la domanda è segno di un cuore aperto e dà respiro. Davanti alla malattia e alla morte del tuo piccolo quale domanda ti sei posto? Che cosa ha determinato, a morte preannunciata, la fedeltà al dono della vita?

Emanuela Picchi. Non abbiamo mai pensato all’aborto. E’ bastato incrociare gli occhi di mio marito per decidere che questa vita non era nostra, era stata voluta da Qualcuno prima di noi e quindi andava rispettata. Inizialmente avevo anche rifiutato di eseguire l’amniocentesi in quanto esame invasivo. Sembrava poi che ci fosse un problema di tipo cardiaco e che il bambino si potesse curare. Per questo ho accettato di sottopormi ad un esame invasivo per capire il tipo di malattia e poterlo poi curare. Se il problema era solo di tipo cardiaco avevamo il dovere di aiutarlo.

Il motivo per cui dovevamo amare questo figlio ammalato era perché riconoscevamo la grande benedizione degli altri figli, degli amici, della comunità che ci ha formato e dell’ambiente che ci ha sostenuto fin da piccoli. Non potevamo tirarci indietro nel momento della prova. Era arrivato il momento di dimostrare tutto il bene e l’amore ricevuti. Quello era il modo per rendere al Signore quanto ci aveva dato, oltre alla convinzione che è Lui che progetta le nostre vite e decide la durata del tempo del nostro pellegrinaggio. Ognuno ha il diritto di vivere quel tratto di vita che Dio gli concede: Non tocca a noi decidere quanto e come una persona deve vivere. C’era poi la forza della coppia e il sacramento del matrimonio che ci si scambia di continuo. Ogni volta che ci vogliamo bene ci scambiamo la grazia e questa forza del sacramento c’è tutti i giorni. Noi eravamo in due a darci forza.

Giovanni Picchi. Ritengo che la vicenda di nostro figlio sia stata per noi un cammino di conversione. Noi abbiamo in corso un sacramento che ancora deve essere riscoperto nell’ambito della chiesa. Volersi bene nel sacramento del matrimonio ha assunto varie forme attraverso i secoli. Oggi ci viene chiesto di riscoprire il ruolo della femminilità e della mascolinità.

Quando ho presentato il libro mi sono sentito vulnerabile. L’ho presentato davanti agli amici con i quali ho condiviso tante esperienze. Ci sono amici che conoscono anche i miei difetti.
Mi sono sentito vulnerabile perché ho espresso il mio bisogno di essere sostenuto da loro. La sera della presentazione del libro c’è stato molto silenzio. Ho giudicato il silenzio molto importante perché è un silenzio che conserva tutto di te. E’ un silenzio profondo perché disposto ad accettarti tutto, anche con i tuoi limiti. Se sei disposto a vivere di fede, le cose si invertono. La fede trasforma la realtà e la realtà non è quella che si vede. Ho sentito quel silenzio come il silenzio del nostro bambino che non ha mai pronunciato una parola ma che, con la sua breve vita, ci ha richiamati alla verità del dono a cui siamo chiamati.

Don Giancarlo: è indispensabile cercare di dare risposte a domande inevase. Nel succedersi della loro testimonianza, Emanuela e Giovanni hanno dato risposte illuminanti, nate dalla loro esperienza di fede. Il pensiero moderno ammette che nell’uomo ci siano domande ma poi nega che esistano risposte o strade che portino a esse. Il relativismo sostiene che esistono infinite strade e ciascuno può scegliere quella che preferisce. Lo scetticismo afferma che non esistono né risposte né strade e che, di conseguenza, non vale la pena farsi domande o cercare risposte. Il nichilismo gaio vuole privarci di qualsiasi certezza. Afferma che sia sufficiente godere di tutto ciò che si può e finché si può.
La risposta ai perché ultimi è invece indispensabile per l’uomo. La fede che ha come contenuto la presenza viva di Cristo nella realtà della Chiesa è la risposta alle domande e alle esigenze ultime della natura umana. La fede, nella verifica dell’esperienza, comunica certezze convincenti.

Giovanni Rimoldi (Busto A.). Per il nichilismo gaio l’importante è vivere, non vivere bene, neppure vivere male. E’ vivere dell’attimo fuggente. Questo è il dramma. Vivere così è vivere da disperati, senza neppure averne la coscienza. La fede, al contrario, dona la certezza della Verità. Ciò che Emanuela e Giovanni hanno evidenziato sul matrimonio è una cosa bellissima. Nell’atto di amore che viviamo ogni giorno nel matrimonio siamo di fronte a Cristo. Cristo è il sacramento che ci unisce e ci rinnova nel dono reciproco dell’amore.

I pacs e le convivenze di vario genere sono terribili perché eliminano molti aspetti della persona. La coppia ha bisogno di vivere l’avventura umana sulla strada aperta da Cristo. Anche nelle difficoltà. Tutti ci siamo chiesti che senso possa avere la vita davanti ad un dolore innocente o a un dolore imprevisto e fulminante. La vita acquista il significato più completo nel momento in cui ci si sente abbracciati da Cristo e, per lui e con lui, si accettano le croci. Bisogna anche riconoscere il dono della speranza: malgrado la presenza di una cicatrice che si rimarginerà solo in cielo, noi godiamo di tale certezza. La speranza è un dono enorme. La rassegnazione è una forma di disperazione.

Emanuela Picchi. Quando abbiamo rifiutato l’aborto terapeutico, l’abbiamo detto ai nostri figli, ad ognuno in modo adeguato alla sua età. Il maggiore, un giorno ci disse che, conoscendo le nostre posizioni, questo rifiuto se lo aspettava. Ci ha anche detto che era molto contento della nostra scelta. Questo ci ha fatto capire che i giovani hanno bisogno di incontrare e ascoltare dei testimoni e maestri di vita. Nostro figlio, attraverso l’accoglienza del fratellino, ha capito l’amore incondizionato dei genitori verso i figli senza che noi glielo spiegassimo a parole. I giovani hanno sete d’amore e di conferme sulla verità delle cose.

Cremona Sandro (Legnano). Ho sentito la frase di un sacerdote che dice: “Le croci bisogna prendersele sulle spalle, perché altrimenti ci cadono addosso e ci schiacciano”. L’enciclica del Papa dice che Gesù ha riunito due comandi: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente; e amerai il prossimo come te stesso. Davanti a questi due doveri ha posto un diritto: quello di sentirci amati. La risposta di vera speranza dentro il cristianesimo è che Dio ci ama come se non avesse altri da amare.

Don Giancarlo. Dio ama ciascuno di noi come se fossimo l’unico oggetto del suo amore. Il male che accade è la conseguenza del peccato originale. Dio non ha voluto estirparla dalla storia dell’umanità e dalla natura dell’uomo neanche con la redenzione operata da Gesù. Il peccato originale è un’eredità incancellabile che fa da memoriale. Se non si avesse questa ferita noi dimenticheremmo facilmente il senso della nostra storia.
Il male è talora legato alle forze incontrollabili della natura, talaltra alla cattiveria dell’uomo o alla sua stupidità, talaltra ancora al disegno arcano di Dio che lo permette in vista di un bene. Dio non può volere il male dell’uomo perché è amore. In caso contrario non sarebbe più Dio ma Satana. Il cantico di Zaccaria definisce Cristo come “un sole che sorge dall’alto”. E’ un sole che illumina il male e lo trasfigura, lo riscatta, lo riconcilia nel gesto d’amore del Calvario e lo ridona all’uomo come promessa di compimento.

Anna Maria. Mio figlio è morto sette mesi fa. Che mio figlio non ci sia più è un bene?!? Quanto don Giancarlo ha affermato è troppo difficile da accettare…

Don Giancarlo. La morte biologica è entrata nel mondo come castigo. Da questo male Cristo sa però cavar fuori possibilità imprevedibili di bene…Una documentazione di ciò l’abbiamo incontrata anche oggi nel racconto di Emanuela e di Giovanni e in quello di Antonietta che ricordo ancora. Antonietta ci ha parlato del figlio Michele morto in un incidente stradale qualche anno fa. Recentemente una regista di Busto Arsizio, lavorando sugli scritti che egli e altri hanno lasciato, ha messo in scena uno spettacolo che sta girando in molte scuole superiori della Lombardia e che interpella migliaia di studenti sui pericoli della strada e sul senso da dare alla propria esistenza.Dalla morte sulle strade di molti giovani è nata una proposta di vita.
Il dolore della perdita di un figlio porta una ferita incancellabile che aiuta però a non dimenticare la transitorietà del vivere. Cristo è la presenza che rianima il cuore con la forza del suo amore. Lui che poteva scegliere altre vie, ha scelto la Croce come via al cambiamento.

Giorgio Targa (Milano). Desidero ringraziare Emanuela e Giovanni per la loro testimonianza. E’ evidente che la loro è una fede forte che li ha aiutati ad attraversare questo evento. Molti tra noi hanno attraversato questo evento forniti di una fede un po’ sopita e a volte vacillante che li ha costretti a subire inizialmente la croce per poi riscoprirne il valore in un cammino di fede. Ho capito che avete avuto un grande rispetto per la vita e avete fatto della morte un evento educativo per i vostri figli.
Ci accomuna la ricerca d’aiuto agli amici e con coloro che hanno avuto una storia simile alla nostra. Ci sentiamo molto vicini e in comunione. Grazie.
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